L’ultra
montaggio sequenziale analogico
di quando tutto ha inizio te lo devi guardare con la maschera dell’ossigeno, se
no muori. Che se si trattasse di animazione ordinaria – leggi: quella dove ci sono I puffi
e gli omini rossi di Esplorando il corpo umano – non diremmo adesso che la
cinepresa virtuale di
Takeshi Koike disegna il vento come nessuno ha saputo fare
mai, ché solo lui stesso in quanto entità, dopo, è stato capace a rimanere
ancorato al
solco dell’intercalazione integralista che seziona (sanziona) il dipinto visuale
con un milione di inquadrature che spaccano il tempo del fotogramma in mille frantumazioni
d’ipersuono elettronico brutalissimo, come ha fatto in Redline; qui in questo film
di
macchine tubolari che mirano a diventare organismi cyborg forniti di coscienza,
ma pure fabbriche di ferri on the fly trabordanti di vibramenti di sopra la spia
rossa della idoneità stabilita dagli uomini del futuro succede che si verifichi
una transizione abbastanza subnormale oltre quello che tanti anni fa si chiamava
cinematografo, perché adesso nelle estremità giapponesi di Koike mica si chiama
più così; lo si deve classare, e sempre dietro dettatura del nostro, come
scatola di sagome che si deformano, e il disegno implode. La
velocità diventa il mezzo insignito al mutamento delle figure bidimensionali in
iperboli di contaminazione superrealista.
È colpa di Miyazaki, quello degli anni ’70; tra
i primi registi a riformulare l’uso della gravità rispetto alle nozioni di
fisica macchinista di base, che ti vedevi la Fiat 500 di Lupin III decollare pur
mancante in quanto a reattori, suggerisce al nostro che si doveva fornire
al discorso argomentazione ulteriore negli inseguimenti de
La lapide di
Jigen Daisuke, come ne
Lo spruzzo di sangue di Goemon Ishikawa
– che scomponimento di arti a parte organizza corse facenti scuola a sé – così a
rendere di nuovo omaggio a Monkey Punch, oltreché a continuare queste intuizioni
marziali che Koike ha dapprima introdotte nel 2009, in queste cellule di
contenimento che vengono lanciate a mille chilometri orari; la scrittura,
tuttavia, assume un ruolo per nulla marginale dentro la narrazione
sovraccarica di Redline, uno sceneggiato non-lineare di manigoldi senza patria
che si spostano tra pianeti fino a Roboworld, nel qual luogo si è liberi di
girare tanto di reboot
dello sbarco in Normandia e dell’apocalisse metafisica di Katsuhiro Ōtomo, ché
al diversivo delle Sturmtruppen grandangolari con le pustole segue la creatura segretissima dell’esperimento fuori controllo,
per ricostruire la
scena di quando il super colonnello ordina ai sottoposti di armare il
Satellite Orbital Laser. La macchina da presa, trucida per necessità visagiste,
sollecita il frame. I corpi si allungano, gli occhi vorrebbero fuoriuscire dalle
orbite e il tessuto inizia a scucirsi. Si opziona la plastificazione del character
design. Linee di attaccatura tracciate col bisturi che vedi ancora smagliare
sul grezzo azionamento del
boost.
Circa l’uso di eventuali tecniche di computazione
avanzate, loro dicono che sono rimasti all’Apple II, e che non sanno dell’esistenza di questa cosa delle
strutture in 3D da incollare sopra gli storyboard e
come non dargli credito. Realisticamente, sembra che hanno fatto bene. L’aggionamento dell’animazione a
ventiquattro fotogrammi al secondo religiosi racconta la perduta arte del disegno
realizzato a mano, con la matita, i colori e turni di quarantotto ore dentro a
perimetri cubicolari a inframmezzare rodovetri; vi è un ritorno di suoni –
James Shimoji – incisi apposta per sovrapporsi alla propulsione di quest’azione
di corse semi-oblique, angolari, laterali, trasversali di triangoli a quattro
spigoli che la senti penetrare nelle viscere la pulsazione antigravitazionale
della linea del sincrono acustico, casellario di rumori che si incastrano al
tramato finanche nelle fasi che accostano l’immobilità del dialogo alle
situazioni di scuotimento dalle parti delle turbine, il fuoco che viene
risucchiato dai pistoni e poi riconvertito in fuoriuscite di metano che
implichino una conseguente accelerazione della guerra, ché tutto è concesso
durante il Gran Premio delle canaglie spaziali, anche di trasformarsi in
hovercraft e deviare dal tragitto in cemento pistola alla mano, per incenerire i
crauti che apprestano dai fianchi; Redline è un film impressionista. Velocista.
Evidentemente futurista. Gli standard conoscitivi del consumatore di anime
e ologrammi giapponesi filiformi risultano traditi, e a ripetizione, da
quest’insolente cifratura di contro-iconografie e dismisure, anche ritrovandovi
a proiezione un possibile soggetto di fanservice cumulativo e necessario
maschilismo, tra le aderenze femminee in fibra ignifuga che, al contrario,
tribuiscono all’apparato filmico intero la direttrice dello stile.