Takeshi
Koike si vede che sa. E si è studiate le origini della zantetsu-ken, allora che si
cerca dalla biografia di Goemon Ishikawa un patrimonio antologico verso il quale
orientarsi, e da cui accertare le dovute distanze, a risparmiarsi le ribalte che
un film di licenza avrebbe comodamente conteso, sicché s’insiste nel valersi
d’interventi di osteotomia del radio, per un sushi western che si
confrontasse con l’inquadrato di Takashi Miike, e l’intruso di una cinegrafia
italoamericana che dice di sapere i trucchi del mestiere a memoria, dalle spazialità larghe agli autoscontri
con videocamera bassa, al caso ricorrendo a un ispettore Zenigata che si potrebbe scambiare per
Henry Fonda, o anzi a una Fujiko doppiogiochista bohémien che irretisse a tipo di Bond girl; Lo spruzzo di sangue di Goemon Ishikawa, dove Lupin
III si mostra in giacca nera, raccoglie il dualismo filosofico de
La lapide di Jigen
Daisuke in una tempesta di gesti terminali e gesta divinatorie che siano
deceleranti del microtempo, di forse avanti a una fibra di coscienza
paranormale che non è che un richiamo alla comunanza di fede con lo spirito
degli elementi.
Lo scrittore Takahashi passa le persone da parte
a parte. Ne lede gli organi periferici. E non che non l’avesse fatto ex ante coi
fucili, mal grado che ora è storia di chirurgica taglienza, un simposio scientifico di
dottoroni seduti intorno all’auditorium che battono le mani, tutt’al che la
katana è un bisturi
attaccato a un’elsa, ci si emoziona a osservare l’avambraccio cadere ed è perlopiù, questa
che arriva, una richiesta di partecipazione alla festa dell’atto, dell’arto, a
conto di previo abbassamento della curva di visibilità dell’occhio, cui si schiera il senso
mancante, un organo animale che ristringe il lag fotometrico e risvegli alcune
facoltà nascoste che il nemico certamente detiene, nello scorcio di girato più
critico, entro a un raggiro hitchcockiano di presentimento di fine che si
decritta nell’inquadratura replicante di “A prova di morte” in un’arte
che porta catarsi alla radice del nervo, a sentirti morire illimitate volte, ché
ti aggredisce alla testa una sensazione di teste che scivolano via dal collo e
par di udire il rumore del martello che batte sui chiodi della cassa che spetta
a chi disparge il sangue degli esseri umani innocenti; nel discorgere il rigetto
delle folle, cotanto Takeshi Koike cede al fotoscenico con cui si era designato
legittimo successore di Kawajiri, già nel 2009, per iscrivere la continuatura di
queste forme aerodinamiche frontali che sprizzano e scorpano di carni.
Le terminalità dello strumento televisivo sono da
qui respinte; vi è
anziluogo un’imperativa bisogna di conciliarsi al teatrismo di Reinhardt, e
contrappesare la massa cinetica al naturalismo di campo lungo preso dai
ministri del cinema relativista giapponese degli anni ’50, in sede di ripresa di
“Rashomon”, tutto rigorosamente in bianco e nero che spiega i modesti valori di
contrasto e trasmittanza de Lo spruzzo di sangue di Goemon Ishikawa,
incespicante nel perimetro del gesto kabuki, dietro appena a uno svolgimento
pulp già mai sgarbato o fuori arco, ché mai sia scuoiarsi col muscolo
tricipite brachiale il brumoso rivestimento del samurai offerto in sacrificio al
crepuscolo, e al primo sole sovvissuto, di presto a ingannare il richiamo delle
terre arse. Il Goemon di Takeshi Koike non usa indietrarsi alla battaglia. Sospeso fra
l’isolamento interiore e la maniaca disciplina dell’acciaio il guerriero suona
vendetta sull’acustico “Satori”, testo di Takumi Iwasaki, musiche di James
Shimoji – quello che in Redline appiccava il fuoco – disponenti al medio-stoner
di arpeggi e solismi à Lo chiamavano Trinità, cui è reso credito in un
ilare convivio di cinghiali vivi presi a morsi da un tale uguale a Bud Spencer:
citazionismo che è memorazione dei generi bravi a Rodriguez, di certi
misconosciuti film da cassetta diretti da Lamberto Bava ai quali l’avant-garde
dell’ultimo anarchismo si ispira, ché ci era un poco trasparso che la cinquantina
di minuti
di character design ultrarealistico e bidimensionale animazione non
avesse detto
a esaurienza sul Regista, scritto con l’erre maiuscola. Per discinderlo da tutti
gli altri.