Circa
l’animazione di Goku Midnight Eye è noto che avevano pensato di avanzarne istanze a Osamu Dezaki
e Akio Sugino, avendo i creativi di Versailles no Bara commessi in manifesta
coerenza gli obblighi del “maschio dominante”, verso il 1982, tramite Space
Adventure Cobra, l’altro manga di Buichi Terasawa; datochè, tuttavia, le
avventure del presente Goku dall’occhio sinistro plenipotenziario non potevano
rimanere semplicemente maschiliste ma avrebbero dovuto esondare in un serbatoio
di carnalità, se non peggio nello splatter orrorifico di Scanners (David Cronenberg,
1981, voto 7.5), in Madhouse convennero di telegrafare a Yoshiaki Kawajiri tipo
presto presto, che poteva benissimo essere che qualcuno ai piani alti stesse
facendo il suo nome in merito a una serie TV di 152 episodi e allora ciao.
Niente ripensamenti: a garantire per lui
c’era il gran dispiegamento di cose vietate ai minori de
La città delle bestie
incantatrici, che nemmanco due anni prima aveva contribuito al verticale
incremento
della richiesta di videoregistratori e lettori Laserdisc Panasonic placcati
d’oro dalle parti di
Akihabara, per la gratitudine degli esercenti che avevano trovato dimora presso
i medesimi distretti commerciali, termometri della esplosione della home
technlolgy e di tutto ciò che riguardasse la diffusione di anime e
videogiochi hentai.
Abbiamo visto che lo script di
Demon City Shinjuku aveva notevolmente arginato il Kawajiri molestatore,
e non stupisce orbene che i due OAV di Goku Midnight Eye,
nel far seguito a tale presupposto, agissero a stimolare la
strapotenza del suo animato bestifero, zotico che ben dispone di questo
Terasawa di spaziature doppie, di manga pensati come storyboard da
rimettere allo scrutinio del colore. Senza fretta. Magari entro dieci anni. L’anime
concentra tutti gli elementi del cinema di Kawajiri. I quali vengono esasperati.
Ché si verifica l’ulcerazione dei pigmenti, spiegati frame per
frame, a non sacrificare il senso di pienezza, la flessibilità
convogliante a tronchi femminili asserviti alla dea Giunone, ma pur oltre di quel
mezzo volgarizzante comune del subgenere, e con le prevedibili iterazioni visive
–
la donna cyborg motorizzata, le mosche meccaniche portatrici di virus – da
entromettere a un’esponimento plastico, kubrickiano di quadrilateri in ratio di 1.33:1 pieni d’intensità e
compressura dello spazio, contro la distensione cinetica del bastone, l’attrezzo
che scatena la fase hardcore e vagamente pulp di ambidue gli episodi, nella
costante dello sparo semiautomatico e notturno delle pistole Beretta 86.
Kawajiri abiura dal riconoscersi in un certo
buoncostume televisivo mainstream; nell’ordine di una escalation di superomismo
e testosterone, dove il “sesso debole”
deve escogitarsi succube di lascivia, torture,
decapitazioni e fascistoide sodomia vuol chiamarsene fuori a rendere al Goku
Midnight Eye lo charme del nuovo anime per videocassetta, che non
doveva essere solo del Giappone classista degli agenti in smoking bianco e lo
stallo alla messicana. Quelli dovevano risultare da sfondo di qualcosa di sensibilmente più
erotico e voluttuoso, corpi e pavimenti che avrebbero dovuto sporcarsi di un fiume
di sangue
arterioso, di un rosso grafico, vivido che sembra che è quello che Lucio
Fulci applicava dentro ai suoi film americani dove c’erano gli insetti, sicché l’omicidio allestirà una
scena del crimine degna di complementarsi al mobilio di una suite presidenziale
come vizio integrativo incassabile alla consegna del pass, per esaudire volontà
registiche superiori quanto l’assemblaggio di una supercar in vernice
poliuretanica nera, primer resistente alla corrosione, controller di
carburazione automizzato, flusso canalizzatore, e che sia naturalmente fornita
di lanciatori laser secretati dalla CIA che oltrepassino la barriera della materia
sotto il segno dello sgretolamento di uomini cyberpunk volanti e dai superpoteri
psichici. Il punto fermo, la cosa che non potrà essere argomento di discussione
è che le femmine devono morire. Non importa come. Nell’ottantesco di Goku
Midnight Eye codesti organismi clitoridei debbono mostrarsi deboli, indifesi,
effimeri seppure anche leggiadri nel quando si concedessero al loro
irreversibile destino di esseri viventi programmati per il sesso e per la morte.
Ché la eleganza del key frame, in un film di Kawajiri, non dovrà
mai venire a mancare.