Film
che trattiene potenza, fin sotto l’egida di una joint venture
nippo-americana che avranno formato per contentare un certo pubblico caucasico
di bassa lega, eppure se a dirigere il film suddetto chiami uno che all’anagrafe risulta
iscritto come Yoshiaki Kawajiri devi poi mettere in
preventivo che questi tiri dritto per il sentiero dell’autoaffermazione,
puranche ricorrendo a qualche trucco, a far credere ai finanziatori che davvero si volesse acquisire una soluzione stilistica di
compromesso, per continuare intanto sottotraccia un percorso di
meticolosa rimappatura dello spazio, ché per il regista di
Ninja Scroll e
Vampire Hunter D: Bloodlust
non è infine realizzare sequenze di scorrevolezza ma semmai stilizzarle, rispetto al rettangolo d’inquadratura,
non che a una macchina da presa che verso questi corpi statuari che richiedono che venga loro
corrisposto gesto di adorazione deve contrarsi, comminar forza
centripeta e senso di gravità.
Vi è una parziale revisione delle trame che
furono del primo Highlander, ma non ci si priva del raccordo per flashback; ciò
assumendo, se il lungometraggio di Russell Mulcahy insisteva sulla impossibilità
(dell’immortale) di stringere legame con l’umanità (mortale), in “Vendetta
Immortale” è per dunque il dilemma del castigo disatteso a veicolare un
significato di qual certa inesorabilità, pur quando l’intrusione del
trasmigramento dell’anima intenda alleviare, se non addirittura ribaltare
l’assunto del persistere ingabbiati in un flusso di eventi asettici, dove la
memoria di chi è vissuto si dissolve. L’incollatura dell’azione corrente di
post-apocalisse al ricordo del perduto splendore del passato ricorrente è un
meccanismo che funziona. E si guarda, lo sceneggiatore Abramowitz, dal ricamare
più del dovuto sulle derive metafisiche e morali che il discorso implicherebbe –
a quello ci pensa il regista di suo, che ribadisce la funzione liturgica del
“suolo sacro” della cristianità, zona franca da non bagnare col sangue –
convogliando mira nel combattimento da ingaggiare ancora e ancora con Marcus
Octavius, personificazione del potere di Roma, ma non evidentemente di un “male
assoluto” davanti al dovere militare del punimento, che non cede alla
misericordia né teme rappresaglia: versando tributo a Ridley Scott e quindi a “I
Duellanti” (1977, voto 8.5), “Vendetta Immortale” gioca sulla insanabilità
dell’atto della contesa in sé, sopravvivente al tempo
e alla ragione, se non persino al richiamo della morte.
La mano di Kawajiri sgrulla il figurativo
secentesco, e su richiesta trafigge le membra. Vi è una disciplina da
mastro d’armi che deve uguagliarsi al palcoscenico di staticità relativa, per
un modello posturale che si dovrà allestire militaresco senzaché la spada venga
necessariamente estratta, ché non vi è acquistabile indulgenza nell’arte di
Kawajiri ma bensì una percezione di asperità che, ancor meglio in Highlander,
volentieri traborda nel modernismo del fucile, a renderne il contrasto con
quest’acciaio di katana, lancia o scimitarra che rimane settaggio di smarrite (e
ormai dimenticate) generazioni di eroi. L’atto sessuale, estetico, esplicito, diretto non
deve venir meno da che «i miei film», Kawahiri insiste, «debbono completarsi
attraverso amplessi che ne mettano in luce l’umanità, poiché il
sentimento, il romanticismo è anche fatto di carne, di fluidi, di corpi che
sanno dominarsi, da che la bellezza sa essere rudimentale, violentissima e lasciva».
Si è ricorsi a un discreto ausilio di grafiche in
rendering acché si creasse meno dispendiosa l’animazione degli elicotterismi
ripresi in volo – per imposizione registica integrati quanto possibile al
disegno a mano – e invero il film persegue un binario di solida tradizione
bidimensionale per i principali suoi segmenti, che sono quelli scatenanti,
quelli da cui il supermotion e il fast-forward successivi
traggono il movimento, che è reso in fotogramma veramente esteso, così che il
risultato esteriore intervenga a rilevare costante questa refezione di figure
umanoidi slanciate, erotiche sculture in marmo di Candoglia che sovvivono per
smania di vendetta, o che periscono nel nome della conquista.