È
illegale sostenere che questo non è un film di Yoshiaki Kawajiri. Si dovrà nel
merito indire una conferenza stampa di rettifica e dire che le rivendicazioni
sul film siano quantomeno da riassegnare, pur malgradoché ai titoli di testa
sovvenga sovraimpressa la scritta “regia di Taro Rin”, refuso di traduzione per
dentro. Urge restituire giustizia al peso del ruolo trainante, che ne La spada dei Kamui
è del “keyframer” Kawajiri, non ci sono dubbi, l’anime
intero si riduce al modello archetipale del suo ego a veder questi incidere (recidere)
assai oltre la
metà dei centoventi e rotti minuti di acrobazia, e di sensazione di vertigine
costante, e ancora di cascate di cristalli disco music generati per mezzo d’iniettura
quando le spade non volendo incrociassero, sconquassando il perimetro dei corpi
e degli scorci bidimensionali; se dal film di Rintaro agisci per paradosso in
resezione della parete coreografica
pluriangolare acidissima vai anche a distrarlo da questa sua elasticità di
stiratura di arti e tronchi sinuosi che ristagnano nel sentiero della
pittografia, da cui il design stiliforme di un Moribi Murano – venuto ahinoi a
mancare nel 2011 – particolarmente fisso sui risvolti dei volti volitivi, e
di questi profili ravvicinati deputati di riflettere la truculenza a oltranza
sul vitreo superficiale degli occhi. Non lo vedi mai transigere, La spada dei
Kamui. Colleziona croci con fare democratico, da che l'acciaio non usa attuare distinzione tra
il bene e il male.
La cinepresa mobile intende scostare
l’acustica-stereotipo dei ceppi Tokugawa del XIX secolo, e per dire si ricorre a
un revival del sound tipicamente anni ’70, nella chitarra
elettrificante lo scolo delle sequenze principali per acclamazione degli dei del
rock; al che, osservi materializzarsi a levante un mischiamento di azione psicotropa e
uccisione marziale, amputazioni, vendette, tradimenti e colpi di teatro neanche
se nel premiato western medievale in cui Toshiro Mifune porta due spade e infilza
tutti, compreso il regista, e ma dobbiamo rendere grazie a Ryudo Uzaki & Eitetsu
Hayashi, di nuovo, che si meritano di essere nominati, si sono inventati
circostanze sonore con variazioni chimiche di pianoforte e cose di tamburi e vocalismi, legni,
utensili
che percuotono altri utensili per farli scoccare come gli strumenti tradizionali
giapponesi di cui viene tramandata l’arte nei dintorni di Shirakawa-go e in
similari atolli dimenticati dal tempo. Lo screenplay, composito, di
barbarie rifinito acuisce il senso del dramma dovuto alle apparizioni-lampo
degli assassini-ninja e ai monaci che sbucano da dietro gli alberi di ciliegio,
ed è un continuo tramare, ordire di congiure famigliari patricide che graveranno
dall’infanzia all’età che definisce “la strada del guerriero”, che per essere
tale deve davvero lasciarsi alle spalle i cadaveri delle persone più prossime.
Il guerriero, forgiato dal monaco con l’inganno, dovrà al monaco la sua forza.
Che il guerriero gli restituirà a fil di lama.
Ancorché Rintaro sovrintenda lucidamente alle
implicazioni del suo mestiere, non essendovi di che rimostrare circa l’affezione
con cui il regista riunisce in voce unisona un elaboratissimo contingente di
elementi descrittivi e visuali, La spada dei Kamui accusa prolissità nel cercare
di coincidere letteralmente i resoconti di Tetsu Yano, anche a costo di
compromettere il criterio cinematografico cui ci si atterrebbe per non arrancare
nel didascalico, cosa che varcate le frontiere giapponesi tende di frequente ad
accadere, allorché si attraccano le Americhe dei nativi e s’incomincia un
ampolloso percorso itinerante di omaggi al romanzo picaresco – il protagonista
Jin avrà modo di incrociare nientemeno che Mark Twain – come al cinema di Fred
Zinnemann, nella riscrittura all’arma bianca di “Mezzogiorno di fuoco”; viene
ordinato un ulteriore rullo di pellicola lì dove bisognava più realisticamente
mettersi a tagliare, a snellire un montaggio che almeno fino alle mirabolanti diatribe
del Giappone in costume era accaduto conforme a una linea di ripresa di sobrio
ascendimento del kenjutsu... e di Kawajiri, in ragione dello strascico
iconografico/marziale, e quindi carnale, che dobbiamo nuovamente attribuirgli in
quanto inimitabile e discernibile marchio. La spada dei Kamui professa il suo
mantra dietro l’onere della ostentazione, ma tra i suoi acuti creativi
statuisce uno spaccato d’imponenza umanistica manifesta, pure rispetto al
veicolo di trasmissione che può essere l’home video. Sebbene si debba sempre
parlare di cinema, quel feudo inaccessibile dove si fabbricano i
sogni.