Suggeriamo a Nostra
osservazione di
parlare di Mona Lisa Overdrive, dovesse avanzargli
mezz’ora dove discorrere di cyberpunk e tracciare linee di comunicazione con
Cyber City Oedo 808, e tutt’al più si finirebbe col non dire che Blade Runner
è arrivato abbastanza in anticipo rispetto ai romanzi di William Gibson;
scomponendo le figure
dell’anime di
Yoshiaki Kawajiri per mezzo di macchinari fotografici
di alterazione angolare delle superfici succede che si vedono poi su di esse
fotoincisi manufatti cinematografici d’inizio anni ’80, come
cablature dell’elettricità e pistole-cannone col riconoscimento delle impronte
incorporato, e d’ogni
modo abbigliamenti vagamente kitsch, hair extension che
s’intonano al ceruleo di palazzi che superano di cento volte il cielo, e che si
agganciano ai satelliti mediante ascensori spaziali. L’animazione di Cyber City
Oedo 808 sopravviene frugale, ma secante. La ridistribuzione della luce concentra su
queste isole di semioscurità che il regista declina ancora verso l’artefatto della messa a fuoco dinamica,
e si registra la presenza di corpi curvilinei, e di questi volti che diventano
triangolari, occhi da cui farsi
ipnotizzare.
Allora Kawajiri
si libera del didascalismo di Hideyuki Kikuchi; l’acquisita discrezionalità
creativa, che è pur seguente uno script di Akinori Endo (Armitage III, Battle
Angel Alita) già studiato per trasporsi in anime, fornisce al regista una opportunità di sperimentazione ulteriore,
appena dopo Goku Midnight Eye,
presso quelli che sono i suoi utensili filmici ricorrenti, di spazi vuoti da
riempire tramite espedienti, azzardi e intenzioni coreografiche, proiezioni, un
che di cromatico rivendicante diritti d’autore anco restanti le premesse da cestone del supermarket,
che avrebbero l’anno seguente ispirate le vicende di “Sotto Massima
Sorveglianza”, diretto da quel mestierante di Lewis Teague. Il manifesto techno soprannaturale enunciato da Cyber
City Oedo 808, sempre intriso di uno schematismo marziale che se lo vede Michael
Mann inizia a chiedere i fondi per realizzarne il live action entro un
anno si decomprime verso evidenti tratti di continuità, fibre in diamante che tagliano il televisore dietro a questa volontà di
frattura che deve distanziare l’elemento statico, fermo, fisso, da ciò che è
solerte, mobile e incostante. Possibilmente, l’assillo plastico (e semantico) di Kawajiri assume luogo (e stemma)
sulla linea d’interstizio delle due frazioni.
Rimangono astuti certi scambi di vedute col droide/supervisore,
allorché lo si accusa di essere tra
gli artefici del decadimento di Oedo e quando che lo stesso, laconico, ribatte
di avere ereditato i difetti di chi l’ha costruito. L’anime si concede la
sconsacrazione dell’austerità dell’«Io robot» a modo d’intelligenza artificiale
–
Christopher Nolan, ventiquattro anni dopo, ne avrebbe sottoscritto il metodo –
mirando a liberarsi dell’idea distopica di fondo, che ciò malgrado viene
fuori, si respira se pure contaminata dal vampirismo de “Lo strumento
scarlatto”, utopistico sentiero d’immortalità trovabile all’interno di una
capsula criogenica espulsa alla deriva; gli attori, ex criminali senza un
domani, e i comprimari, estemporanei fantasmi venuti dal passato, cospireranno
in un giuoco di corresponsabilità all’emancipazione del poliziottesco come
genere parallelo al tech drama, in assenza persino di una conclusione
adducibile tale, ma che la “condanna a vita” spettante ai
nostri vorrebbe comunque lasciar desumere. Nel 1990, e a voler rendergli credito, Oedo
sarebbe dovuto uscire al cinema
in misura di film suddiviso in tre parti, per il suo richiedere di supporti in
pellicola da 35mm in poliestere rigoroso; allor che in un certo senso la prerogativa del Kawajiri regista si afferma
nella precondizione alla proiettabilità, in questa cinematografia sorgente che
sembra ricusare i nastri tutt’altro che definiti dei formati VHS, gli OAV
intendono reagire all’anime pensato per l’home video da collezionismo dato il loro eleggersi al noir di maniera, che non vorrà dire
George Orwell... ma, di grazia, neppure Bruckheimer.