Allorché questo qui che dice che manca d’essere il miglior Kawajiri lo si
comparasse a un anime di estrazione horror casualmente
estratto dall’industria degli anime di patrocinio Netflix, assicurandosi
di avere dal carteggio esclusi Devilman Crybaby e Castlevania, per non cadere in un
cliché di
approssimazione attualista succede che questo qui diventa il lungometraggio di animazione
di genere del corrente anno, e anche dell’anno che verrà, che non pensiamo che
l’anno venturo porterà un anime dell’orrore lontanamente degno del Nostro attenzionamento sacro, a meno che non sia
lo stesso Kawajiri, di ritorno dal cerchio infernale del Limbo, a concludere che
è tempo di concedere una ulteriore opera-manifesto carente di sceneggiatura, ché
la parte dove si deve presentare agli attori/doppiatori un copione da leggere
intercorre superflua, nei manifesti dell’arte di Kawajiri. In Demon City Shinjuku ci sono dunque le persone
giapponesi che parlano
del più e del meno sullo sfondo di una Tokyo maledetta, ma ci sono anche i
disegni animati che spiegano la ricerca della santificazione visuale, che sono tutti
bellissimi, anche i mostri, e forse soprattutto questi, nel quartiere demoniaco
di Shinjuku.
Codesto Kawajiri esplora. Marca bene il
territorio. Primi piani di magnetismo. Neri e intensi blu dovunque. Scariche di
luci fluorescenti. E sicuro che fa uso intelligente di questi suoi superpoteri
che trasformano le cose convenzionali in cose apparentemente colte, come nella
sequenza della donna serpente, esibente a mo’ di sedurre maschi alfa carne
biancastra con cui stritolare a distanza, ché si doveva scatenare il simbolismo
della tentazione/penetrazione
dantesca, e rivendicare una specie di purezza di concetto difronte alla
chiarezza esteriore di Sayaka, lei sì, ammettiamolo, recipiente di un vasto
assortimento di fantasie perverse; l’anime arriva al suo culmine in
capo a una suddivisione per microsettori: duello iniziale tra bene e male/rapimento di
presidente del mondo/figlia di presidente del mondo che domanda aiuto a maschio
beta salvatore del mondo/intermezzo onirico di fantasmi/duello finale tra bene e male. Le figure parlanti
mantengono una certa funzione di
raccordo; nei (rarissimi) segmenti di staticità del frame vi è un bambino venuto
dal nulla che sa destare improvvisa inerzia, sicché allora tal Mephisto induce effluenze di
combattimento stylish all’acido, prima di elevarsi a giudice onnisciente e
pilotare un laccatissimo acuto di fidanzamento con prole.
L’elemento che circoscrive le ambizioni
di Demon City Shinjuku conduce alle carenze del soggetto iniziale, e comunque a
un avvistabile, ulteriore impoverimento occorso in fase di riduzione a script.
E non che
La città delle bestie incantatrici,
tra gli anime viscerali del Novecento, potesse investire su chissà quali
scritti di manifesta altura, ma pur l’anime superava la
costipazione della forma e veniva fuori nel bagliore delle sue figure mostruose
trasgredenti, gli atti di violenza, gli stupri, la morte; il vuoto di
lessico di Shinjuku viene provvisoriamente colmato dall’acrobatico esercizio di
ripresa virtuosa, dal manierismo cui si deve intercedere per fede, ancora che a
questo giro l’idea iconografica non sia così dominante, e stenti a sovrastare,
annichilire le componenti filmiche altre: sul qui stante videometraggio di cose
che aizzano a un qual dato impressionismo metropolitano Yoshiaki
Kawajiri commette autoerotismo. Ed è tanta materia prima, altroché. Solo che subito dopo Shinjuku il regista avrebbe realizzato
questi due diamanti purissimi di
Goku Midnight Eye
e
Cyber City Oedo 808
dai quali l’essenza di questo tipo di animazione
verticalista sarebbe defluita più liquida, abbondevole. Ma è pur vero che la Nostra parzialità inclinata
al
bisogno di assumere droghe di cromatismi lucidi e squadrature, corpi e cose che
ti arrivano dritti frontali quasi trapassando la barriera fisica del televisore dirà che Demon City Shinjuku è film a ogni modo e in ogni caso
preservabile, ché l’arte di Kawajiri, anche adesso, la vedi e la senti scorrerti
nelle vene.