Trasduzione
di celluloide poliziottesca anni ’70 sotterranea, e se dopo succede di
girare un film di ninja residenti nel 1500 è cosa abbastanza superabile che deve
riguardare il regista e lo sceneggiatore, che sono la stessa persona che di nome
fa
Yoshiaki Kawajiri. Si stabilisce in ordine a un richiamo di reticolare
increspatura, disegno affusolato e particolarmente appuntito che solamente lui
sa come si fa una serie di azioni, e di profili anatomici di un tono blu bianchissimo, un rosso di contrasto allo sfondo a intermittenza com’era
pressappoco successo ne
La città
delle bestie incantatrici, ché se pure anche nella imperfezione
di quest’immagine sofisticata dal precedente e reiterato uso della
videocassetta, dove Ninja Scroll inizialmente risiedeva, si poteva riconoscere
sin troppo nitidamente il complemento del fotogramma-chiave, che risolve la questione
della fotografia in una frazione di secondo, il tempo necessario a che il grado
di acidità del colore venga dall’occhio codificato senza passare dalle sinapsi,
ché l’animato di Kawajiri è un flusso costante, e plenipotente dovrà imporsi a
infondere vampi di luce subliminale.
E i novanta minuti del film diventano
improvvisamente trentacinque. Si restringono. Non lo senti il tempo che
scorre, nei tempi funamboleschi di un soggetto prossimato verso il
ripristino della narrativa di Kurosawa, il cui plasma viene estratto per
canalizzarne i fiotti e usarli come decorazione invero, mica per studiarne
il DNA, ché Kawajiri ricusa il cliché del cineasta che si mette a scrivere
le cose che hanno fatto gli altri, e anzi lui incoraggia una linea d’uscita dal genere,
dentro a queste derive di sadismo e violenza, giusto per abdurre una
possibile trappola filo-dottrinale di formazione Kamakura-Muromachi; il
cinema di Kawajiri, più metodicamente melodrammatico di quanto l’uso
intensivo della steadicam lasci intendere è comunque intriso di
manipolazione e dissacramento della retorica storicista. Se ne ha
prova nella figura di Kagero. Velenosità conturbante che il cineasta
inseguiva dai tempi di “SF Shinseiki Lensman”, arrivando a comprovarne gli
effetti sulla sua epidermide nella trilogia delle città maledette, che
doveva essere l’87 quando scrisse della donna ragno, fomentando le
subculture di certo “pus underground ad alto costo”, che poi avrebbero
segnato il decennio novantesco. Ma lo si perdona, davanti al
ricorrere di questo primo piano scientifico che collide il medievale rosso
sangue di media riscrittura del western, dove al posto dei sette samurai si
trovano gli otto demoni di Kimon.
Il movimento, in Ninja Scroll, si determina di
pari passo all’innesco del volume di profondità. È il corpo mobile che
appresta allo schermo, escalando velocemente, a imprimere nell’opera
questo suo
tagliante dinamismo, che se vogliamo è anticinematico per
assenza di riferimenti orizzontali, per cui lo spostarsi del modello umanoide
sullo zoom più eccessivo conduce alla sincope delle proporzioni, che si
proiettano tridimensionalmente, e che trasmutano a sagome longilinee penetranti; le sorgenti
luminose, i chiaroscuri, la sovraesposizione del lineamento
sottocutaneo concorrono propedeutici alla (voluta) ristrettezza di questo
quadrilatero sorgente che reclama verticalismo, e ci sono tutti questi oggetti a
ingranaggio in legno e metallo, e cose meccaniche smontabili che non fanno che
sovraccaricare l’inerzia del girato. E la cadenza del fotoscatto. Si arriva a
Kaoru Wada, quindi al suono che scalfisce l’avanzamento della tensione in un
modo che ti ridesta i nervi, che lo cogli, lo avverti inesorabile il
vertice del contenzioso tra katane truculento, teste che volano via per uno
strumento a corda che sibila, il gigante in pietra che si sgretola sotto il
fendente dell’acciaio vibrante trapassante, e l’udito si affila al sonaglio
della lama sguainata così che nel momento in cui l’omicidio avviene lo
senti in anticipo il soffio del pezzo di carne tagliato, poi che Kawajiri inventa
sì, romanza la storia del Giappone antico, ma soprattutto riflette lo stato
brado della sua arte. Cuore di tenebra che non conosce pietà.