MENACE di @Andrea
Chirichelli
A
quindici anni dalla sua pubblicazione è difficile
valutare limpatto che Menace ha avuto sulla storia degli shoot em
up. Spesso dimenticato nelle chiacchiere tra retrogamer a discapito del suo
psuedosequel
Blood Money, sempre opera di DMA Design, ancor più spesso ignorato
quando si citano i capolavori Psygnosis, Menace è stato forse il più rivoluzionario
gioco di tutta la softeca Amiga. Non per meccanica di gioco o perché innovatore in campi
quali longevità o giocabilità. Anzi. Menace era un gioco semplice: lastronave,
sputata letteralmente fuori dalla bocca di una “testuggine spaziale” il cui
arrivo sullo schermo è ricordato dagli appassionati con un fondato entusiasmo dato che
mai prima di allora si era visto un oggetto così imponente in un videogioco casalingo,
doveva percorrere sei livelli blastando a destra e a manca (anzi solo a destra visto che
lo scorrimento era orizzontale ed in un’unica direzione) nemici di ogni foggia per
concludere la sua fatica contro linevitabile mostro di fine livello. Di fatto il
mondo videoludico allora conosciuto di videogiochi di questo genere ne era saturo.
Ciò che rendeva Menace irraggiungibile dagli altri giochi
della categoria era la grafica. Sontuosa, particolareggiata, ultradefinita, in definitiva
da spaccamascella. Le ridondanze coloristiche di alcuni nemici, gli sfondi interattivi che
trasudavano effetti di parallasse e offrivano spettacoli policromatici agli occhi
lagrimanti gioia dei giocatori non erano concepibili con qualsiasi altro sistema.
Tantè che la versione Atari ST era una cocente schifezza. Certe cose si potevano e
si dovevano fare solo con lAmiga. Dopo aver visto Menace il rapporto con tuo padre,
col quale parlavi poco dalla nascita migliorava, vedevi più spesso i tuoi nonni, i tuoi
zii chiedevano a tua madre il perché dell’inaspettato calore che dimostravi nei loro
confronti. Tutti erano serbatoi utili da cui attingere le fruscianti cinquecento carte da
mille per portarsi a casa il nuovo balocco interattivo. Menace era “la ragione per
cui”. “The first home coin-op” sentenziava la copertina di
Computer
and Video Games mentre più prosaicamente il nostrano
The Games Machine
gli affibbiava il solito, banale, ridondante novantanove per cento: e il pubblico di
giovincelli in delirio ormonale non poteva che essere daccordo sgranando sulle
immagini di gioco.
Stylish game? Può darsi. Tech demo? Beh adesso non
esageriamo: erano inglesi, quelli di DMA Design, mica giapponesi. Volevate un nuovo
Gradius? Passate in sala giochi. Come dimenticare la prima visione del cuore (pulsante!)
del mostro scheletrico che si frapponeva tra la navicella e la fine del primo livello?
Menace i suoi bei difetti li aveva: imparati i pattern di attacco nemico era semplice
arrivare alla fine, e la distruzione dei boss di fine livello non risultava mai troppo
problematica. Ancora la scarsa evoluzione degli armamenti (anche se il sistema per
ottenerli era abbastanza inusuale e aggiungeva un certo spessore strategico al gioco,
visto che se si pescava un’arma bisognava per forza rinunciare ad unaltra) non
giovava alla longevità del gioco, che con i suoi sei livelli dalla lunghezza
standardizzata restava di fatto unesperienza breve per quanto intensa. Come tutti i
veri grandi amori del resto. Lunica ombra che avrebbe potuto oscurare la luce del
capolavoro Psygnosis (e che probabilmente ne influenzò il successo e la visibilità nel
corso degli anni) era una conversione di un famoso arcade giapponese, chiamato
R-Type,
che proprio nello stesso periodo andava ad arricchire la softeca di una
strana console a 8 bit made in Sol Levante. Ma questa è un’altra storia e
la racconteremo un’altra volta...
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