RICK DANGEROUS di @Luca
Abiusi
Già
su Amiga e assai prima di Tomb Raider Core Design esplora l’ambientazione alla
Indiana Jones
portante
cunicoli, trappole,
occasionali serpenti e tombe egizie. Eppure Rick Dangerous è il videogioco che avrebbe
dovuto realizzare la Lucasfilm, quale variante arcade parallela alle sue avventure a
puntamento, poiché i
rimandi al pellicolame spielberghiano sono palesi; per cui l’omino, per quanto in super
deformed, indossa il cappello e riesce a far breccia grazie al suo
nanismo di simpatia, ma segmento ironico a parte il gioco risulta complesso,
degno di sfida, radicale alla schermata. Un passo falso e crack, si è morti. Rick
cammina ma non sa se poi il mattone che sta a calpestare attiverà l’ingranaggio che
farà scattare la lancia che lo infilzerà. Attenzione: Rick Dangerous è
videogioco di spostamenti studiati al centimetro, di salti al contagiri e
conservazione delle armi. I proiettili sono contati. Le cariche esplosive
sono contate. Se ne dovrà farne uso davanti le pareti rocciose, di fronte la
filara di indigeni e proprio quando non vi sia altra via per procedere. Si
deve amministrare gli oggetti. Solo così si arriva alla fine, si vince.
La meccanica platform di Core Design rimanda
al metodo di percorrimento per quadro, ma rimane dentro il classico defluire
dell’azione manualista. Viene consegnata una mappa chiusa, di risoluzione a
scatola, che chiede di pensare e sul tempo visualizzare la struttura fino al
pixel; Rick Dangerous ha il verbo di unificare la scuola del platformismo alla
dottrina trasversale dell’avventura, sicché lavora sulla disposizione delle trappole
in funzione dell’intuizione del manovrante, assumendo che da un pertugio lì nel muro si nasconde per forza una qualche diavoleria,
posto che il medaglione posizionato al punto sospetto di sicuro scatenerà il
congegno foriero di spuntoni a trappola. Niente improvvisazione. È sullo
schema degli schermi che Rick Dangerous esprime il meglio del suo
potenziale: il giocatore viene educato all’affanno della frustrazione, ma ci
sta. Funziona, la cosa. La
sequenza iniziale del masso che ci insegue è leggenda. Ma un po’ l’intera
opera si compiace del colpo di scena, si alimenta col gameplay della
diversione improvvisa, per esorcizzare lo spauracchio della ripetizione. Vi
è sostanza. I livelli si realizzano estremamente difformi fra loro, offrono un approccio
alla difficoltà che è scalare e assolutamente assimilabile. Taluni episodi
di rapida uccisione possono disarmare. Tuttavia il titolo
concede il sufficiente margine di memorizzazione e raramente devìa verso il
prosaico imbastire dei medesimi sistemi di completamento.
Invero rivedibile il metodo di collisione fra
sprite. Capita di sfiorare appena il nemico e di capitolare, e di
ricominciare daccapo. Irritante, ma può darsi che i programmatori l’abbiano fatto
apposta. Come pensiamo abbiano disposto intenzionalmente le zone morte di
quando si arriva senza dinamite dinnanzi al muro e non vi è che da
suicidarsi, poiché senza esplodente non si passa. Ma ci si abitua. Del resto
se si è disposti ad assolvere a pieni voti il Team17 di Alien Breed,
che elargiva chiavi col misurino e che portava all’esaurimento, non vediamo
perché si dovrebbe agire altrimenti per Rick Dangerous. L’atmosfera di
claustrofobia riveste un ruolo
essenziale, quindi i grafici mettono a video grafiche mostranti attenzione
per il particolare anche più minimo, più irrilevante; per quanto non si
solchino vette artistiche di particolare altezza Core Design ha fatto in modo che ci si
rammentasse poi, a distanza di secoli, dei labirinti e delle buche, dei
protagonisti miniaturizzati che si muovono interessanti, anche se non come
in Prince of Persia. L’azione non rallenta mai. Va detto che nelle
occasionali fasi a scrolling si ravvisi un certo flicker dell’immagine qua e
là, eppure è un fatto che, grossomodo, non concorre a
scalfire questa materia di gioco pressoché ruotante sulla ultimazione di
inquadrature immobili, fisse allo stadio di elaborazione dell’ignoto.
Sussiste stile, con l’intercessione del processore ECS, pertanto ogni livello esprime
discreta l’identificazione con l’ambiente, e monumentale in tal senso risulta essere la
piramide egizia coi suoi geroglifici e lo sfondo intarsiato. Si renda
grazie, poiché il gioco c’è, è esteso, ricolmo di prove da affrontare, balzi
delle fede, Harrison Ford. Core Design (Simon Phipps) ha fatto il suo, a suo tempo.
Sebbene Rick Dangerous non sia vistoso, questi è sicuramente un videogioco
centrale per il genere e oltre il suo genere, e si ricava, lui, un naturale loculo di rappresentanza.
Una parvenza di videogioco
di culto.
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