SHADOW FIGHTER di @Luca
Abiusi
Sul
terminare del ’94 Naps Team dà all’Amiga un picchiaduro a incontri pieno di
personaggi e Capcom come non se n’erano visti mai neppure al tempo di quando
illusi si pensava che US Gold potesse fare la conversione-miracolo, mentre
si osservava le super edizioni di Street Fighter II formato
cartuccia, Mega Drive o Super Nes. Fa lo stesso. Shadow Fighter arriva
per tempo, anche se in ritardo. Altri due anni pieni l’Amiga ce li aveva
ancora e chi ancora possedeva anche il 500 avrebbe potuto dire al compagno
di classe griffato Sega che lui un qualcosa come Shadow Fighter non
l’avrebbe mai visto, e che si poteva tenersi il suo Super Street Fighter
II. Mentendo. Poiché si sarebbe svenduta anche la madre per una
traslazione degna del super picchiatore, e ciò stante nei primi Novanta il
beat ’em up faceva tendenza e se non potevi allungare le mani
sull’ultimo arrivato potevi invero sentirti inferiore, per cui l’esclusività
Amiga di Shadow Fighter era cosa di cui farsi belli pure a constatazione
della clamorosa tecnica visuale, il parallasse che segue la prospettiva
dell’inquadratura come in
Elfmania, come sul coin-op di Street
Fighter II. E ci voleva un team (italiano) di due persone appena per
sovvertire la storia e suggerire a Capcom che avrebbe potuto (dovuto)
puntare su Amiga oltreché su X68000, ché magari stai a vedere che manovrando
il blitter ne vien fuori una versione superiore al versante Mega Drive, sul
1200.
Naps Team vince poiché sa gestire bene i
criteri del corpo a corpo. Per questo la collisione si fa avvertire al
contatto, e si capisce che l’avversario si è fatto un gran male per il
rallentamento, la vibrazione dello sprite pensata proprio per trasferire la
fisica dell’impatto e ancora restituire il dolore con lo spruzzo del sangue,
che si raggruma sulla pavimentazione per restarvi alla durata del match. Un
solo pulsante. Limitazioni. Naps non ha nemmeno opzionato l’uso di un joypad
a due tasti, cui sarebbe stato giusto dare indirizzo di separazione tra
calci e pugni e invece un pulsante. Indubbio che i ragazzi si siano spremuti
per fare che le mosse si potessero performarsi veloci, e così in effetti è,
eppure la mancanza di un controller appositamente studiato si avverte eccome
nell’atto del quarto di luna, delle combinazioni più elaborate che non
riescono perché non vi è margine di riparazione all’errore, e se solo si
manca il tempo di mezzo decimo si conclude per realizzare mosse non
richieste. Però ci sono le prese. Il che è clamoroso, per un picchiaduro
formato Amiga, dopoché nemmanco Body Blows Galactic ne aveva adottata mezza
per sbaglio, e funziona, la presa. Ci si avvicina l’opponente afferrando, lo
si catapulta dall’altra parte ed è passione per il combattimento stylish
giapponese introdotto in sala giochi verso la fine degli Ottanta; al posto
di Ryu ci sta un bimbo di nome Toshio che altroché se lancia le palle di
fuoco, che sferra calci volanti. È bello.
Quindi gran numero di personaggi stereotipo.
Slamdunk usa il pallone da basket, e il poliziotto spara. Electra è
elettrica. Toni è il figo del gruppo. Tutti assieme a realizzare mazzate di
riscontrabile tecnica, ché il gioco non è il premere a testa di toro –
pratica che può invero funzionare con Pupazz, il personaggio segreto – ma è
piuttosto una riuscita vetrina di caratterizzazioni funzionanti in missione
d’incastro complementare, per scansarsi di dover impersonare un combattente
palesemente più forte del restante, e a guardare si può dire in tranquillità
che Shadow Fighter sia battibile opzionando uno a caso dei diciassette,
sempre che si sia disposti al preventivo (e necessario) regime di
allenamento. Le grafiche vogliono bene. Fior di colori colorano lo schermo
viaggiante a 50Hz e generalmente fluenti ritornano i movimenti, eccezion
fatta per Kury, che avrebbe richiesto qualche fotogramma in più. Ma poi a
osservare lo sfondo allo stage della metro, col treno che sfreccia, s’alza
le mani in segno di resa poiché uno spettacolo di simile animazione
s’attesta di rado persino sui picchiaduro della SNK. Il suono è di
spessore. Ma proprio l’effetto sonoro. Le musiche fanno il loro ma è la
campionatura ambientale, la eco del vento al quadro delle montagne, il
rumore dell’acqua nel livello giapponese a soprelevare il lavoro di gestione
di un chip Paula che Naps sembra aver opportunamente profanato perché
potesse cantare, decantare le lodi della migliore scrittura in assembler dai
tempi della Thalion. Sfortunatamente, Shadow Fighter fu l’ultimo (e unico)
titolo reso dal team italiano ad Amiga.
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