BUBBLE BOBBLE di @Luca
Abiusi
L’archetipo
della cosa bidimensionale si vede che sta all’inizio del videogioco
della Taito, per cui può essere che in una situazione di renderizzazione di oggetti
tridimensionali un
videogioco come Bubble Bobble esattamente non sia, in quanto che Lei
vorrebbe appunto imprigionare questa sua idea dell’infantilismo all’interno di
una sfera dimensionale dove che la qualità della sfida sia misurabile sulla quantità di bolle di sapone virtuali
sparabili a vista, ma dietro non dovrà esservi null’altro che il plasma. O
comunque, niente che non sia assumibile a quel tipo di elemento che dicono si
verificasse con la creazione di tutte le cose poiché nessuno dovrà poi togliere al videogioco
della Taito l’illuminazione del gameplay di costruzione
e decostruzione del tutto (o nulla) cosmico.
Taito interviene a inserire banchi interagibili sovrapposti e a popolarli
di nemici un poco scemi, perché si proceda a impersonare dragame con lo sparo delle
palle incorporato in una struttura di avvisabile staticità, che tuttavia viene
poi resa fertile da una componente decisiva come il flusso vitale.
Si gettano le raffiche delle
bolle con lobiettivo di rinchiudervi dentro i nemici e provocare la detonazione;
si mietono i dolci e i frutti di
bosco nell’ambiente illusorio, surreale quanto la fila che viene generandosi
davanti al rispondente cabinato, al punto che per farti una partita hai
dovuto
staccare il biglietto di prenotazione; Taito mette su palcoscenico una commedia priva di
un reale allestimento, nera di sfondo, mesozoica come è mesozoico il ripiano di
compensato che sostiene la collezione di pupazzi che hai ultimato l’altro giorno,
ma però prima che venissi risucchiato da questo meccanismo
che spacca il secondo, che richiede fissazione, autismo, ché la partita
incomincia che sei già persuaso di
essere capace di completare grandi stringhe di livelli mediante il salto e l’inglobo,
non fosse che poi Taito inizia a reclamare dazio, a presentare il conto
della manovrazione determinata al pixel, della distanza
drago-nemico che devi considerare se non prefigurare, ché devi anticipare, e
valutare bene il salto quando l’ultimo cicisbeo a forma di balena parte
alla carica incazzatissimo a testa bassa – un classico delle
meccaniche Taito – in direzione draghi.
Ve ne sarà un milione, di quadri. E per quanto il viavai
di bolla che scoppia a contatto, frutti e caramelle che ne fuoriescono, nemico che si
libera, nemico che si arrabbia, velocità che raddoppia, lettera extra da raccogliere,
perforazione di profondità e misurazione finale da mostrare al giocatore
amatoriale sia pura
reiterazione e ripetizione e ritornazione di pattern, Bubble Bobble vince e stravince sul
fattore dell’assuefazione portata al suo limite, sul bisogno di essere servitori di un
ingranaggio tanto rudimentale per icastica quanto assoluto in seno all’elaborazione del
level design grandemente anni Ottanta, ma pure anni Novanta, anni
Duemila. La grafica è un
insieme di blocchi di piattaforme messe le une sulle altre per fare in modo che il
draghetto vada in su, ché può solo andare su o al massimo lasciarsi cadere, quando
è necessario esplorare le zone inferiori. Quando i cattivi dei piani
superiori incominciano a divenire più
intelligenti di un sasso. Di un coso che va a destra, urta il muro e va a
sinistra. I suoni sono l’epifania che all’improvviso si manifesta. Ti
sembrava che ti eri già ascoltata le musichetta di Bubble Bobble già allora,
figurarsi ora, questo tema scanzonatissimo che è istituzione,
costutuzione come a prestare giuramento mentre che la fanfara suona la dichiarazione
di dipendenza da videogioco a sfondo nero e sprite rotondo. Il capolavoro
della Taito si materializza a
cagione delle ere che passano, non quando tenevi undici anni. Ma adesso.
Adesso sì, hai il permesso di dire che Bubble Bobble
è come un dio. Un dio del platform.
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