RAINBOW ISLANDS: The Story of Bubble Bobble 2 di @Luca
Abiusi
Fa sua comparsa il successore di
Bubble
Bobble, che finalmente colora lo sfondo e che opportunamente reca la
variazione del gameplay: per mezzo degli arcobaleni si deve adesso
attraversare codesti spensierati mondi di ragni, farfalle e un certo numero
di oggetti rotondi. La
grafica, minimalista nelle sembianze, esprime il disegno dell’infanzia e può contare sul character
design di artefazione del pupazzo. Grazie all’MC68000, processore
che veniva utilizzato anche da
Capcom e Sega, gli elementi scenici si arricchiscono sul profilo cromatico
e consegnano, inoltre, una quantità di sprite ben superiore in raffronto
alle
schede antecedenti.
Un titolo enormemente giocabile, questo Rainbow Islands, che pure orfano di una modalità
per due giocatori simultanei riesce a garantire il divertimento tipico della
scuola Taito.
Entro la via dell’intuizione
delle estetiche-giocattolo viene portato omaggio a Over the Rainbow,
che fa l’innocenza di quando si guardava il Mago di Oz, sebbene poi nelle
raccolte venture Taito avrebbe deciso di incidere altro commento sonoro, per
risparmiare sui diritti. Rainbow Islands. Videogioco di manovra e di
struttura, materializzazione del gameplay a uso di tutti, questo componimento di quadri e livelli
che procede uniforme in ascensione come un palazzo, a saltellare
sull’arcobaleno un po’ di qua e un po’ di là, trallallero trallallà, voglio
il lecca lecca, mamma portami alla giostre. Vige lo stesso discorso fatto con The Newzealand Story e
Bubble Bobble, solo che in
questo caso il protagonista è carne umana, per la prima volta, e assume le
sembianze di un
omino paffuto coi calzoni, naturalmente prepubescente nonostante che poi la scuola
Taito concluse che i videogiochi dovevano essere degli utensili come di
sfere avvicinabili da umanità di larghe età, sette anni, novant’anni. Si vede
che il gioco si scansa il convenevole per interloquire, costruire un
cliché di pixel tipo castelli che bisogna conquistare, per salvare
qualcuno che in qualche modo è stato preso in consegna dalle forze del male,
e lo si fa, si accetta di essere salvatori poiché il televisore è il
palcoscenico del pastello.
Rainbow Islands rende il meccanismo della
trappola. L’arcobaleno serve a farvi stare dentro i lombrichi, i nemici
cosiddetti seppur questo sia anche il vettore per la scalata alle postazioni
superiori, ché non sempre il salto usa arrivare dove è d’obbligo che si
arrivi. Almeno finché su schermo accampi il materiale della commutazione in
punti, le caramelle, gli insetti, il videogioco scatena il meccanismo del
domino per cui le schiere debbano essere investite al tocco per moltiplicare
il bonus, generare icone extra, cristalli di scatenazione. Livelli segreti.
La semplicità clamorosa di certe dinamiche vuol determinare anche il
fulcro, la caratteristica trainante di platformismo al saltello tra superfici,
dove che si insinuano impalcature verticaliste che quindi realizzino questo level design
votato alle fissazioni bambinesche delle costruzioni e ci si concede, si
persiste all’inseguimento di quest’idea iconografica di brillantezze e
colori a matita temperati comperati dalla cartolibreria che faceva sotto
casa, cose come accessori di cancelleria, a evolvere le tecniche
bidimensionali che furono di Bubble Bobble,
allora traghettando la visione del videogioco arcade di metà anni ’80, ormai
obsoleta, verso una prospettiva di intrattenimento più moderna. È Nostra
volontà ferma di conferire a Rainbow Islands il titolo di opera di interesse culturale,
in modo da collocare il medesimo oltre il ghetto del videogioco, in quanto oggetto
della raggiunta universalità popolare di massa.
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