PULSTAR di @Luca
Abiusi
Contrariamente a quanto si sia
portati a pensare lo sparatutto è un fatto geopolitico. Tale dottrina
del videogioco, che riscuote consenso fra agli strati umorali di un
predisposto popolo – nello specifico una schiatta giapponese non più in grado di invadere la Manciuria – mette in luce
l’avvilimento del dopoguerra, la disfatta di una nazione che pure di continuare a
sparare decide di brandire il joystick e muovere conflitto ai pianeti. Che è la
trama di Pulstar. Il quale è
shoot ’em up identificante assai bene questa mania assieme alla
sua trivellazione piuttosto rudimentale, che tuttavia sa lavorare sopra alle idee
a dir poco audaci della Irem degli anni Ottanta, ché nel 1995 ci stava la brutale potenza bidimensionale del
sistema NEO GEO Pro-Gear Spec a 330 Mega, che però non erano Megabyte, a fornire
nuove possibilezze intorno all’orbitazione dei satelliti e ai missili balistici
subacquei, anche se non ci è ancora del tutto chiaro come potessero verificarsi
acque a stato liquido nel profondo spazio, datoché ci sembra di aver sentito
dire da un tale che in tali condizioni si generano i cubetti di ghiacchio.
Sicché sussiste una forte marcatura delle
distanze parallattiche a suffragio di un senso fotografico d’impatto, il
Pianeta Terra sullo sfondo all’inizio tanto per fare un esempio, e si ha il
dovere di saturarsi di forme aliene in definizione di un’azione
assolutamente visiva di navi madre, detriti, proiettili, detriti,
proiettili, navi madre, giganti in titanio e cannoni in titanio stylish,
spazio di spazi eleganti e già puoi presentire la tecnica nella
presentazione spettacolosa delle navicelle precalcolate e le ragazze in
uniformi aderenti che si mobilitano dentro ai futuristici corridoi a
compartimenti di
Gunbuster, dove guardi fuori e succede l’apocalisse. Viene
sancita amalgamazione tra strutture in pre-rendering e sprite semplici, e
centinaia sono i fotogrammi che si moltiplicano in questo quadro in 2D
pesante in cui individuare a vista i propulsori delle navi e le piattaforme, i congegni aerodinamici delle astromobili, le viscere pulsanti dei biomostri di
fine livello e le trasformazioni di un piano parallelo che sembra sussistere
autonomamente. Qualche mese più tardi il Team17 avrebbe ripreso lo stile Aicom e generato
X2.
Nel
manifestare i requisiti dello
shooter ordinario, ma però programmato per chi ne sa, Pulstar traina a
sé quella che poteva considerarsi una
branca portante del settore arcade; ciò detto, le meccaniche di
attacco, la ellittica degli spostamenti dei nemici, i tempi di impatto, la progressione sul livello, la
strategia di attacco ai boss (e la disintegrazione a ondate che ne deriva)
spingono l’utente a chiedersi se davvero il titolo Aicom realizzi qualcosa in
più rispetto a qualsiasi altro sparatutto di classe nipponica. Qualcosa
in più che magari viene fuori dopo avere dedicate discrete sessioni alla
proazione di un gameplay che vuole assorbire sostanza in simmetria
col metodo di rastrellamento, e quindi col sistema di upgrade di questo
pod
a reazione termica
che non si stacca, ma che tuttavia rispetto a
R-Type
dispone una barriera di migliore copertura prossimale. Allora la power meter
sottostante seziona lo sparo in due barre a latenza che misurano il reflusso dei colpi
–
porzione di sinistra: più alta è la frequenza di sparo, maggiore sarà il
numero dei proiettili
espulsi dalla nave – e il caricamento del beam – sezione di destra: tieni premuto
e vai di fascio frontale – per sofisticare il level design oltre le aspettative
delle umanità conservatrici, che in quell’epoca di transizione di certo non potevano
meritarsi di meglio di un qualcosa con cui si dichiarasse guerra agli universi,
e si uccidesse come al tempo della Irem. Aicom dona alle masse una
opera di celebramento del classicismo fantascientifico per sale giochi e decide che il
videogioco a base di fine del mondo ha ancora motivo di esistere lungo
il tracciato di
manipolazione delle subculture d’avanzo degli anni Ottanta.
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