AGONY di @Luca
Abiusi
È sensibile ancora a ricordanza il suono che
introduce Agony, questo commovente tributo in pianoforte a madri scomparse,
melanconico, archi di sottofondo, un poema di sinfonie firmato Tim Wright che
realizza il nuovo corso degli spara e fuggi per Amiga a fianco alle
fantascienze techno di Project-X, versante Team17. È latente ancora
l’immagine del primo
livello da antologia coi mari in tempesta e i relitti delle navi in piano sequenza, ché
si veniva annullati dalle nature bidimensionali ostili, gli arbusti. E accade ancora di
bloccarsi sul parallasse perpetuo, di restare fissi sul dettaglio di scenari multicolore,
il
trasformismo di un quadro grafico nella cui ondulazione tutto deve essere in periodico
spostamento, come i ponti smossi dal vento, le aquile, il fuoco delle roccaforti, la luna,
i detriti sugli scogli. Non si può restare insensibili alle potenti cascate, ai muschi, alle foreste sconfinate, le paludi che si
estinguono lontane al
crepuscolo. Il dettaglio, in Agony, è religione. Nelle ristrettezze di
cinquecentododici Kbytes – quando lo standard Amiga era salito a un mega – il team Art & Magic
surclassa gli sprite hardware di Mega Drive e Super Nintendo, spreme il blitter
fino alle sue plastiche
e sintetizza una fantascientifica routine di compressione del software.
Agony
narra della disfida tra Alestes e Mentor, i due allievi di Acanthropsis, il Gran Maestro
Mago del Sole. Quand’egli venne a conoscenza del Potere Cosmico dovette, suo malgrado,
lentamente soccombervi. Ne fu consumato. Ma prima di rassegnarsi all’inevitabile
Acanthropsis doveva tramandare il suo sapere a uno dei suoi discepoli, e pensando che
ambidue potessero meritarsi la successione decretò che i segreti del Potere Cosmico
avrebbero illuminato chi fosse riuscito a prevalere nell’arte della magia. Noi siamo con
Alestes. Ci tramutiamo in gufo per affrontare l’orda che Mentor ci scaglierà contro
nell’attraversamento di questi spettacolari idillii; in effetti in Agony non vi è un vero
cattivo. Per quanto la natura risulti ostile è Mentor, nostro compagno di remote
avventure, a evocare il bestiario svolazzante e le creature subumane. Un contesto
di guerra fratricida che si coglie giusto nel finale ma che si può carpire dal
drammaticissimo accompagnamento sonoro orchestrato da Jeroen Tel. Ma un po’ l’intera
crème
della modulazione per Amiga ad alto livello concorre a rendere indimenticabile il soundtrack
di Agony. Vi è il menzionato Tim Wright. Vi è Martin Iveson. Il quale, assieme ad Allister
Brimble e Robert Ling, crea memorabile l’attesa del caricamento da disco –
la rivoluzione del WHDLoad è ancora distante – per dover essere quantomeno
all’altezza di un
veterano della scena demo come Martin Wall.
Nella
sua struttura ad upgrade verticale l’opera Psygnosis reca un discreto numero di armi e magie
da lanciare a mezzo di predisposte pergamene acquistabili al raster; previsto un sistema di
attivazione via spacebar che va a modificare il direzionamento
dello sparo e a
montare protezioni laterali – delle spade rotanti – altressì utili come arieti
al cospetto del mostro. Quindi la tecnica di attacco al guardiano è
necessariamente asservita alla qualità degli arsenali, ché venuti meno i pod e
i fasci allargati tanto vale mollare il joystick, che non se ne uscirà
incolumi. Ciò che il titolo Psygnosis
intende produrre è un tipo di consumo assolutamente arcade che si estremizzi in proporzione di
avanzamento. Allora le intelligenze artificiali volanti mirano a
determinare elevatissimo il grado di cattiveria, tale che si manifesta poi
questa costante situazione di emergenza che solo l’innesto di
specifici power-up – che salvo
occasioni fortuite non avverrà prima di un lustro – saprà
normalizzare, sottraendo il pennuto dal trapasso fulminante. Circa tale argomento Agony
eredita le caratteristiche peggiori di Unreal (stessi programmatori)
in ugual modo mirando
a una utenza più eterogenea davanti a certo avvistabile scolasticismo
nipponico di shoot ’em up da sala giochi, per cui fa in modo che lo
strumento dell’immagine resti sì dominante sullo stato di trance, ma
non al punto da uccidere del tutto il gameplay; al dipartire, nel momento in cui si ritorna alle iniziali
odissee di acqua e pioggia, il senso di vessazione diventa invero
terapeutico nella quiete dell’intermezzo, quando si partecipa ancora delle illustrazioni
a intero schermo mai viste, le quali
evidentemente riconducono alla tradizione
iconografica di Shadow of the Beast.
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