SHADOW OF THE BEAST III di @Luca
Abiusi
Vi
sono titoli il cui prestigio può delinearsi sul singolo spartito. Sulla traccia.
Si dice che Shadow of the Beast
III non sarebbe stato, privo di Tim Wright in camera di
composizione, o quantomeno che non avrebbe ottenuto il richiamo che si serba ai
grandi classici, alle opere che vogliono preservarsi lo stato del mito e che
vogliono tramandare il mito alle generazioni venture, perché il mito diventi una
storia da contare ai nipoti ingombri di tecnologie, di PlayStation. Eppure il
terzo episodio della saga Psygnosis è ben più della – pur sublime – colonna
sonora portante: è invero la celebrazione della bestia, la culminazione di un genere di action game che rivede i tempi dell’arcade
adventure e che ripercorre i vizi di realizzazione della struttura a quest di
tipo orizzontale. Lo avessero fatto i giapponesi, e avesse esibito per protagonista un
eroe con la spada e lo scudo, Beast III otterrebbe oggi il riconoscimento unanime di
pietra angolare dell’avventura a controllo diretto. Spetta a Noi, come è d’uopo, di
riscrivere la storia del videogioco e d’inserire la opera Reflections nella sfera del
videogioco che non ha tempo. Che non subisce il fardello del tempo. Oggi si è deciso di
rivoltare la storia. E il tempo.
Il vigoroso orchestrare delle musiche non oscura,
opportunamente, la virtuosità delle grafiche: era accaduto per i primi due Beast, ma
ancora Reflections manipola la palette di Amiga estraendovi colorazioni e contrasti
decisi, fluidificando al sessantesimo di secondo un effetto differenziale che si manifesta
su più strati. L’abilità dei grafici nell’adopero delle sfumature agguanta l’apice
addentro i fondali, che si sviluppano e si estendono in lungo un piano in 2D dettagliato,
multiforme; il bucolico naturalismo, la spaziosità che infestava i precedenti capitoli
vengono ivi riproposti a pennello di scenografie possibilmente più inquietanti. Quindi il
mondo di Shadow of the Beast III, pur ostile, sa immergersi nel fiabesco dei paesaggi e sa
attingere da essi la sua essenza vitale. Potremmo accampar per giorni in declamo della
unicità estetizzante delle catene montuose del primo livello, imponenti, irraggiungibili,
o in decanto di quel cielo assai blu, assai rosso di tramonto. Ma non vi indugeremo poi
troppo, ché si ometterebbe di rivelare al lettore il disegno degli sprite, principali e
non, a incominciare dal controverso protagonista, il quale è un corpo estraneo e moderno
che dunque deflette i luoghi fantastici e apparentemente arcaici delle estetiche.
L’innovazione del terzo Beast in raffronto ai precedenti due consiste proprio
nell’umanizzare il character design, che resta bestiale solo a
figurazione del nemico che attende.
È il contrasto spaziotemporale a rendere, se
vogliamo, la attrattiva della visione videoludica dell’insieme, a sostegno
di questo radicale cambio di rotta intrapreso da Reflections come
certificato di affermazione dell’arcano. L’enigma. Shadow of the Beast III
racconta di venture d’orizzonte da fronteggiarsi privi d’arme e d’arnesi:
l’oggetto del traversare diventa estemporaneo, dirige verso la manipolazione
ambientale a fine di portar risoluzione al meccanismo composito, azionar di
catena a ingranaggio, muovere a penetrazione di cancelli fortificati. V’è di
che sofisticare il gameplay e uscir di testa a scovar la strada, l’appiglio
che conduca in liberazione di creature che poi chiuderanno una ellisse
d’estrema funzionalità logica (e logistica) per infine restituire a chi
manovra l’opportunità di consumare paralleli un universo che genufletta
assoluto la sobrietà della scrittura. L’idea del raccontare a mezzo di
immagini e non di storiella, ché di novelle s’ebbe a consumarsi retine ai
tempi di Infocom, funziona poiché a funzionare è l’atto che accosta
l’intuizione dell’incastellatura a incastro, l’immancabile momento del «lo
sapevo che bisognava fare così». Videogioco grave, gravoso anche
nell’episodio arcade che prelude e segue il rompicapo. Reflections non si fa
mancare la creatura mostruosa che irrompe e mortifica la processione,
dopoché si è sopravvissuti al rebus più astruso e quando si pensava che il
gioco cominciasse a concedere istanti di (meritato) rilassamento. Al
contrario Beast III vuole il Nostro sangue. Bisognava gestire meglio la
questione della frustrazione, che interviene a sancire il prolungato
ripercorrere del livello già battuto. Ma se così non fosse stato staremmo
qui a definire l’avventura del secolo. Cionondimeno, Shadow of the Beast III
avvicina con destrezza le vette più alte del videogioco occidentale moderno.
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