SHADOW OF THE BEAST II di @Luca
Abiusi
Se
del videogioco si dovesse raccontare le estetiche, e solo quelle, Beast II
rivendicherebbe il manoscritto. Eppur dicono che il videogioco debba anzitutto
mirare ad appagare il comune senso del gameplay. Cosa che appunto Shadow
of the Beast II, rilasciato da Psygnosis nel 1990, si guarda bene
dal fare. Ciò nondimeno, Reflections aveva sviluppato questa sua nuova routine di
gestione degli sprite ed era riuscita ad arricchire le grasse colorazioni
del capitolo uno, per le risultanti bidimensioni descriventi scenari in
silhouette, e poteva essere già qualcosa, al tempo della conquista delle
frontiere del multiparallasse virtuoso. Poi Reflections sembra addentrarsi al fantasioso con la
volontà di ampliare la grandezza della mappa e di perfezionare gli oggetti avventurosi
già presenti in Beast. E fin qui
si deve essere in accordo. Poi
viene immessa la striscia per i
dialoghi con gli abitanti dei villaggi, che sono il più delle volte pretestuosi ma
comunque interessanti sul lato della narrativa. Ancora vi è la rivisitazione dei controlli,
ottimizzati ulteriormente grazie all’implementazione degli shift di
selezione dell’arma
corrente. Ma ciò detto, Beast II fa del male.
Attenzione, non si parla del coefficiente di
ostilità mal calibrato né di imperfezioni sul direzionare il joystick,
poiché Reflections sembra proprio fraintendere la funzione del misuratore
dell’energia sulla scorta della convinzione che non si potesse eccedere
oltre i due, tre colpi assorbiti. Vi è materiale da far genuflettere i
peggiori animali da sala. È questione di istanti. Gli indigeni mirano
all’imboscata e si lanciano dagli alberi per ammazzare il tempo di reazione.
Il preliminare studio del posizionamento nemico vorrebbe risolvere, ma nel
momento in cui si giunga su schermi intermedi ci si avvede
dell’inadeguatezza delle armi a dotazione, sicché davanti il boss non si
potrà che dipartire. Assai inutile insistere: si perde. Lascia stare. La
soluzione migliore è di preservarsi. Ancora: elementi adventure. I dialoghi
possono ritornare utili alla risoluzione dell’arcano, ma non sempre. La tela
avventurosa è in effetti attaccata al gameplay con la colla a stick, e pur
non mutando seriamente rispetto l’illustre precedente stenta a risolvere il
fascino dell’enigma. Dilagante è l’indolenza, per quest’opera dipinta a
mano. Che seppure non completamente ingovernabile cede al ricatto della
frustrazione, al delirio derivante il colpo incassato in atto di gratuita
cattiveria. Ora, Noi non si è figli di Zeus, e ciò stante una pur minima
dose di mestiere si ritiene di possederne ancora. Solo che con Beast II non serve.
Quando succede di interagire con un
videogioco la cui tecnica grafica illumina gli schermi pensi che il
gameplay, proprio in ossequio del grande lavoro artigianale di insieme,
debba necessariamente rimanervi in scia. Per davvero inspiegabile, Beast II.
Ma volendo spiegare, è possibile che Reflections non testasse veramente le
sue opere, e che in ragione delle rigide deadline di Psygnosis non potesse
ricavarsi i tempi per un adeguato regime di beta testing. Congetture
accademiche. La realtà dei fatti vede Beast II sfoderare al vento la
presentazione da rimanervi ancora adesso basiti e gettare a mare il disegno
strutturale, e fare spreco dell’animazione a sessanta fotogrammi, e sterilizzare il colore
di mirabile evocazione per rendere pressoché ornamenti di questo scorrimento
in differenziale che da solo potrebbe fare la scuola dell’arte del
programmare su Amiga. E la realtà dei fatti scrive altressì il
suono di alchimia di un Tim Wright che si conquista l’apice sinfonico, nel
motivo squarciante videate, durante i titoli. Ma la realtà dei fatti dice
soprattutto che a distanza di quindici anni dall’immissione si è ancora qui a
tormentarsi per quel che il titolo doveva essere e non è stato; si è sempre
qui a tentare, col protagonista non più
bestia, ad apprestare al nemico inesorabili, ché si sa già di dover
abbandonare la speranza, Noi che si entra. Avessero almeno inserito il singolo
continue,
largito uno straccio di incentivo, aumentate le vite, urtata la testa al muro.
Si sarebbe potuto dire: «beh, quantomeno ci hanno provato, a fare un
videogioco». Invece
il disfacimento è diffuso, e non si può nemmanco parlare di occasione
buttata, poiché veramente non sussistono spiragli o apici di
accettabilità tali da giustificare la benevolenza che sovente si può riservare agli uomini di buona
volontà. Si sarebbero riscattati in
Beast III. E però quanti
rimpianti,
nell’intermezzo.
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