LIONHEART di @Luca
Abiusi
Se si parla di Thalion
torna come un flash il mosaico di immagini di preview di riviste
Edizioni Hobby S.r.l. inumidite di bava: il commento adiacente asseriva che questo Lionheart avrebbe generato
più di seicento colori in simultaneo a 50Hz lisci. Si pensava fosse un coin-op di
ultimissima generazione, ma si realizzò presto che si trattava di un progetto in fase di
ultimazione per Amiga; in pieno 1993 la piattaforma Commodore non aveva evidentemente
ancora spinto al limite il suo chipset, traguardo che s’era pensato avesse già raggiunto
Psygnosis, coi suoi gufi. Nel ristretto spazio di quattro dischetti Thalion affermava la
superiorità del processore ECS in raffronto alle console a 16 bit e ai 256 colori in VGA
dei PC MS-Dos. Si è in piena fantascienza: Erik Simon, il game designer, dice di
non sapere con esattezza quanti colori vennero utilizzati, ma poi chiaramente spiega che
per sormontare i limiti tecnici dell’Amiga 500 si dovette ricorrere ad alcuni trucchi di
programmazione. Tanto per dire, lì dove una console come il Super Nes avesse tutto
pronto, fra sprite hardware, Mode 7 e chip Super FX da inserire all’interno di cartucce da
32 Megabit fumanti, su Amiga bisognava programmare il blitter e crearsi da zero il
software di supporto.
Qui si riscrive la bidimensione. Possibilmente è giusto la
Terramarque di Stavros Fasoulas ad avvicinare, a mezzo
Elfmania, il cromatismo generante i mondi di Lionheart,
l’estensione del parallasse prospettico. La sezione shoot ’em up andrebbe riferita
alle generazioni venture affinché venga poi scritto del volo del drago, del grado di
sfumatura del cielo. Delle nuvole. Venga preservata l’arte della manifattura a intarsio
nella linea orizzontale, ove accampa il virtuoso concedere di geografie floreali e spazi,
distese d’acque in cristallo grezzo, l’incontaminato universo parallelo del
platform
che fu di Capcom nei gloriosi giorni di Three Wonders, cui Lionheart sembra
intercedere per comunanza di idee, sostanze cromatiche. Thalion concepisce una routine che
visualizza pressoché mille colori in fase di scrolling e innesta altresì animazioni in
sessanta fotogrammi, per rendere perentorio il movimento del protagonista, il quale assume
postura di attacco, si mette a correre, a effettuare balzi, a brandire la spada.
Matthias
Steinwachs. Riporta in vita Wagner. Dirige il bit come fautore principe dei suoni
imperiosi, sontuosi che erompono come grancassa e Drachenflug, ché si è
dominatori dell’aria, sospesi fra il solenne e il metafisico a sostare increduli nel
territorio del classico d’orchestra da trenta e più sintesi di strumenti a effetto
riverbero, in bisogno di tradurre acusticamente quel che il raster dispone a vista. Ed è
un’orgia. Un mischiarsi di tinte e sintesi blu notte, blu viola, blu mare. In tempesta. Il
vermiglio. Il rosso più rosso. Il verde di chiazze di laguna che investe la riva,
l’Amiga. Si dirà che non s’è visto né udito mai nulla di più sferzante in riguardo del
videogioco di impalcatura arcade.
A voler rendere omaggio a
Rastan Saga,
Valdyn sferra il fendente. Poi, nell’atto del soccombere, si dissolve con l’eco gutturale
che sanciva il dipartire del barbaro per questioni di affinità elettive, benché
Lionheart direzioni il gameplay di spessore, e ancora può decurtare le tecniche di
apprendimento assai integraliste che furono dell’arcade di fine Ottanta in manovra di
interessante digressione del tracciato, l’ispezione del luogo antistante in scandaglio di
vite extra, bonus di potenziamento della spada, l’allungamento della barra di energia. Il
Valdyn dispone gran gestualità di verga, può destreggiare e inventarsi il colpo
spaccacranio di Barbarian (Palace, 1987, voto otto) e nondimeno un tiro in
avvitamento nonché l’affondo da altezze, a esser destro d’infilzar mostri in transito.
Persiste questo level design di variazione, di scalata in verticale e poi discesa
diagonale, di arrampicamento su torri e falcata in rincorsa e di slancio verso l’appiglio,
prima delle maree, di caverne piene di ragni e del ragno gigante che attende, schifoso e
bellissimo. Erik Simon mette a schermo un universo frastagliato e tutt’altro che
lineare allo scopo di esperire sull’avventura d’azione e differire dai metodi di
assemblaggio del coin-op di genere, e vuole definire lo strumento di rielaborazione della
struttura grafica in funzione del grado di difficoltà preselezionato, sicché a mutare
non sia giusto l’intelligenza del nemico in pixel ma, contestualmente, il disegno dei
livelli e la stessa disposizione degli oggetti mobili. Verrà elargito un quadro bonus.
Verrà disposto che a fronte dell’improvviso ascendere dell’ostilità sia concorso il
normalizzare sul seguente scontro con la bestia e sui rispondenti schemi di sopravvivenza,
fino a che divenga percettibile la fase di transito dal videogioco di mera convenzione
alla opera di assoluta riformazione dei generi.
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