Le procedure di
restaurazione del videogioco mirano assai spesso a rendere la retrospettiva
di due generi centrali: lo
sparatutto e l’avventura grafica. Ma se del primo si può avere occasionale
testimonianza, del secondo
non si ha più traccia da un decennio. Si potrebbe collocarne la fase di declino
al
periodo di transizione dal floppy disk al CD-Rom, che occorse ridosso il primo triennio degli
anni ’90, nel momento in cui il clamore per le rinnovate capienze
determinava severa la regressione delle idee. L’avventura grafica, quella che
si usa definire
a puntamento, si sarebbe espansa nei termini della pura quantità (Blade
Runner, Westwood Studios, 1997, titolo ampiamente censurabile) ma avrebbe anche
incassata l’involuzione della stesura. Così come
Monkey Island e
Zak McKracken avevano innescato la rivoluzione che avrebbe poi piegate le avventure
testuali, fu un titolo seminale come Alone in
the Dark a introdurre le dinamiche del survival
e a sancire, per paradosso, la fine dello SCUMM. Fate of Atlantis
sarebbe passato alla storia come l’ultimo, grande videogioco di genere di
LucasArts.
L’interfaccia, pressoché invariabile rispetto a
Monkey
Island, converte i bottoni a display in altrettante azioni cui deputare
il meccanismo prensile. L’acquisizione
dei reperti vien resa da
un pannello-forziere. Si prende il mouse, si punta il cursore e si dà vita
all’ingranaggio della narrativa LucasArts
che già si era appreso sulle coste dell’isola di Mêlée, a bordo della nave
pirata alla ricerca di tesori e di fantasmi; i realizzatori ritornano sui
luoghi di ventura a loro più usuali, migliorando ove s’abbisognasse ma pur fluidificando cornice e ossatura.
La grande
esplorabilità si aggancia all’immediatezza della struttura per insinuare, ineffabile, quel
sistema di scrittura interattiva secondo cui ogni azione debba essere il prodotto di una
meticolosa fase di ragionamento e attraverso il quale l’infrastruttura a enigmi, tra i punti di forza di Fate
of Atlantis, divenga l’oggetto della stimolazione dell’ego,
dell’alter ego. Il sistema dell’instillare il compiacimento delle trame
stratificate, devote al rifacimento del cinema di Michael Curtiz, crea
intense le fasi di ricerca & dialogo, il procedimento scientifico grazie a
cui archiviare l’indizio e riconvertire lo stesso nel luogo di svolta del
racconto per immagini. Fate of Atlantis è per questo consacrato
all’intuizione grammaticale della sottigliezza, a voler
spiazzare chi sta a guardare in accordo all’evolversi di uno script che ha
culmine nell’improvvisa alternanza tra Indy e la sua assistente. Una
conduzione dinamica del punta e clicca prima di allora mai concessa, eppure
arresa al gameplay nonché
necessaria allo sviluppo degli eventi.
Dal punto di vista tecnico Fate of
Atlantis può contare su di un intelligente sfruttamento delle risorse
del computer. E visto che si tratta di sistemi base ECS, sorprende constatare di
quanto parsimonioso sovvenga l’adattamento cromatico a fronte dell’edizione PC
MS-Dos, che
adoperava una estesa palette di 256 colori. Su Amiga i colori sono trentadue,
ma il fatto centrale è che la discrepanza al raffronto resti minima,
grossomodo impercettibile se non per la resa di alcune gradazioni. Eppure il
tributo della software house rispetto a una tecnologia che avrebbero presto
abbandonata (Fate of Atlantis resterà l’ultimo gioco sviluppato per Amiga
dalla LucasArts) in favore dei supporti CD dei compatibili è manifesto. Si
disegna a pennello di ambienti generalmente
silvestri, rigogliosi di arte bidimensionale anche sul lato delle
animazioni, dove si compie un ulteriore balzo in avanti ai due Monkey Island,
grazie a queste spettacolose strisce in piano sequenza (leggendario il film
d’introduzione, che segue i tafferugli di un Indiana Jones che finisce a
rotolare, scalciare, tirare pugni) che fanno l’apice dell’avventura a base
SCUMM. Oltremodo valido il comparto del suono. Si provvede a rifornire il
realismo degli effetti ambientali e di ridondanza, sebbene ancora una volta
venga a mancare la profondità acustica MIDI del versante i-muse. E questo è
quanto. Ma è anche quanto si dovesse a un personal computer come Amiga, che
poteva evidentemente ancora realizzare il prototipo dell’esplorazione
grafica degli anni Novanta, il prodotto di assemblaggio artigianale che
riferisse il culmine creativo della LucasArts: fatte salve le escursioni di Revolution Software,
quel che il mercato avrebbe offerto di lì a seguito sul territorio delle avventure si sarebbe
scoperto trascurabile.