Ma
a vedere, la questione di un motore bidimensionale possibile a tracciatura dello
schermo venne fuori attraverso King’s Quest – e si dovrà in seguito riconoscere
a quest’ultimo un debito di posterità – proprio quando sembrava che Sierra
avrebbe acquisito il monopolio del settore delle avventure grafiche. Tuttavia
Gilbert non amava particolarmente la tastiera; la considerava già al tempo un
oggetto a obsolescenza imminente e riteneva inoltre che si dovesse limitarne al
massimo l’uso sul gameplay «se no altrimenti diventa un videogioco per adulti
muniti di processori 8086 e monitor a sfumature di grigio». Se il titolo viene
inizialmente sviluppato sul Commodore 64 è anche perché si superasse quest’idea
di “avventura professionale” che i PC compatibili si portavano dietro dai primi
’80; Lucasfilm si assumeva così la responsabilità di evolvere – anche
politicamente – l’intrattenimento rapportabile ai personal computer. E come una
sorta di statuto, il gioco doveva risultare lo stesso ovunque fosse stato
tradotto: qui su Amiga, stanti le dovute considerazioni tecniche, Maniac Mansion
è come era su Commodore 64.
La fissurazione. Luogo di svolta. Anche
internamente un albero a dialogazione esistente sull’utilizzo di verbi standard,
sembra che a Gilbert e David Fox importasse anzitutto introdurre il principio di
slogatura della parola – e del suo stesso significato – rispetto a
un’interfaccia che avrebbe dovuto lavorare in accordo alla volontà delle utenze;
la coerenza della struttura – ma non dello script: la sega elettrica acquisibile
all’inizio è messa lì per depistare – verte invero sull’opportunità di
affrancarsi dal freddo processo di empatia fra manovrante e sprite che si
muovono e quindi grossomodo nell’arte dell’avvicinarsi a uno stato di congenita
restituzione dell’atto grammaticale. Maniac Mansion è nell’87 la risposta a un
bisogno di svecchiamento, e pur anche in un contesto di interagibilità
generalmente acerbo si può dire che questi risulti essere il paziente zero della
contaminazione dell’avventura a puntamento. Gilbert aveva creato un mostro. O
meglio ancora, la macchina da soldi perfetta.
Su Amiga, Maniac Mansion offre il suo
meglio. Possiede uno scorrere fluido e il suono è notevolmente reso traverso
musiche occasionali e campioni. Le grafiche rifulgono una significativa quantità
di colore e vi è quest’effetto ombra che rende gli ambienti più interessanti di
quanto già non apparissero inizialmente, con la luce lunare di sfondo; un
character design longilineo ma ugualmente irrealista che usa definire i
corpi come fossero concepiti su carta, teste grosse, naturale disposizione a
fuoriuscire dai binari del cerebro, condiziona e anzi decide l’obiettivo verso
cui l’avventura dirigerà, per rifornire il giocatore di una serie di indizi che
non portano a nulla e una serie di dialoghi assolutamente privi di significato
ma che non occulteranno, comunque, un certo modo di fare videogioco, una scuola
di eccellenti pensatori che tanto più osa derubricare il protagonista pensante
(noi stessi) a oggetto maldestro (e malsano) della messinscena, tanto più sa
ottenere dal medesimo la devozione che può essere di uno sfrenato discepolo.
Maniac Mansion elevato al cubo, e col mouse di serie. Invero il titolo avrebbe
potuto estendersi di una qualche mezz’ora in più, per trovarvi per forza un
limite, e assumendo tuttavia che il videogioco è il prodotto delle limitazioni
mnemoniche del Commodore 64 – grazie a cui, per paradosso e quasi
incidentalmente, lo SCUMM avrebbe preso forma – è primo dovere dello scriba
allinearsi alla storia. E renderle omaggio.