Hanno
infine abolito le avventure grafiche a puntamento. Le hanno rese illegali
attraverso una legge promulgata dalla confederazione dei giochi dove si spara e
si cercano oggetti. Il decretum non ha fortunatamente effetto
retroattivo e questo consente che si scavi nel passato alla ricerca di una
verità ludica che non sia il prevedibile revival
per nostalgici della vecchia scuola. Il rifacimento in alta
definizione. Con Monkey Island 2 il videogioco ritorna a
vivere, e con esso tutto un trascorso di letterature brevi e gameplay
dell’intuito. Un nome: Ron Gilbert. LucasArts puntava sulla intelligenza
del copione, sulla capacità di stimolare il cerebro a mezzo dialoghi paradossali e
situazioni al limite della demenzialità, ma pure preservando il fascino avventuroso della
caccia al tesoro, dei riti magici, i misteri dei Caraibi. Ma, ancora, Monkey Island 2 è
una netta evoluzione rispetto al precedente episodio, dacché lo stesso viene surclassato
sul profilo della difficoltà generale, sensibilmente aumentata, della longevità e quindi
di una mappatura geografica che, adesso, mira all’estensione.
Trasferire i duecento e più colori della
versione dos non era su carta un fatto agevole, ma alla fine ci ritroviamo
su estetiche grossomodo raffrontabili, malgrado l’occorsa scrematura. Anzi,
a momenti il dettaglio strutturale sembra ascendere e, in talune
circostanze, la brillantezza cromatica ravvivarsi. Le trentadue gradazioni
ECS viste su segnale RGB e in NTSC (tranquillamente selezionabile in fase di
boot) rendono palesemente meglio della bassa risoluzione standard dei
monitor in VGA. Ma non si poteva dire, ai tempi. Piuttosto, e di là delle
considerazioni tecniche di traslazione, quel che emerge è la assoluta
qualità delle illustrazioni, prevalentemente a stile pittorico, che
cromatizzano sinuose le gradazioni e sfumano sull’orizzonte, al tramonto. I
grafici LucasArts si riprendono l’impressionismo di Manet irriverenti,
profanatori dell’arte, e vogliono iniettare le risultanti vernici al centro di una idea
che si concili immanentista alla ciurmaglia. Il disegno degli sprite è corpulento. E nondimeno, le animazioni risultano più fluenti in quanto provviste di un
superiore numero di fotogrammi. Si osservi pure le sequenze di intermezzo. Le
movenze di Guybrush. Per cui il suono. Che risulta
orfano del contributo di Hülsbeck ma che comunque riesce a trasferire in
atto indolore le
sintesi dell’edizione PC, pur mancando l’allarmante livello di definizione
acustica del precursore. Va anche detto che Amiga non poteva contare su imuse, l’algoritmo
di riproduzione MIDI dei
territori MS-Dos.
Monkey Island 2 insegna su dove può arrivare l’immagine
quando affissa al mestiere del racconto. Annichiliti dalla new wave
delle avventure contemporanee, i cui risvolti di copione si realizzano sulla
sterilità degli intermezzi esplicativi (lettura di documenti, narrazione in
terza persona), avevamo dimenticato che, volendo, si potesse divenire Noi
stessi il veicolo della fruizione testuale. I dialoghi, praticamente.
Discutere con i personaggi che si incontrano, estirpar loro l’informazione,
carpirne con occhio vorace le personalità è quanto si è obbligati a fare in
Monkey Island 2, come anche nelle restanti avventure LucasArts dell’era
bidimensionale, del resto. Ma qui si eccede. Mai come nel presente
videogioco l’idea avventurosa dei primi anni ’90 si impone per
definire il gameplay dell’intelletto, che prevede l’utilizzo della ragione,
che non si concede al manovrante per indicargli la via da seguire e che
deputa al suo intuito gran parte della costruzione degli eventi. Vi
risparmieremo la trama, come è Nostra abitudine. Sia giusto reso che in
questo secondo episodio i fatti assumeranno una direttrice più intricata sul lato
della negromanzia voodoo, sicché si dovrà recuperare sputazze e fare
sortilegi, e tutto in funzione dell’ottenimento di un vascello che poi...
gli enigmi sono di una intelligenza letale. Anche quando l’assurdo sembrerà
prevalere vi sarà pur sempre un percorso indicante la via, la soluzione.
Punta e clicca, e poi il resto viene automatico quanto la pratica di comanda
degli ordini, immessi alla base dello schermo, nonché dell’azione di
utilizzo degli oggetti, che potranno tra loro essere combinati per la
creazione di ulteriori utensili. Un capolavoro, è ovvio. Ma un trattato di
formazione, anche, che ci sentiamo di sottoporre alle adolescenze
supergiovanili, le stesse venute su in modalità free-roaming che restano
spurie della gioia che può dare un videogioco dove si adoperi in sinapsi,
meccanismi cerebrali e ingegno.