In riferimento alla sigla italiana di Record of
Lodoss War dissero, su codesto “Kappa Magazine”, che la vocalist “forzava la voce”. Da
par
Nostro, anche all'undecimo ascolto non ci era invero sembrato di cogliere disfonie che
suffragassero quanto s'era letto, tantoché finimmo col trasmettere a Edizioni StarComics
un telegrafo di formale protesta. Ma questo, a Lara Parmiani, non deve
interessare. Piuttosto, sarebbe ora di restituirle il riconoscimento che certe
migliorabili riviste degli anni ’90 le avevano sottratto, negandole
accesso alla cerchia d’interpreti che riscrisse il suono dell’animazione
giapponese: per quanto ci riguarda, di fianco all’Orchestra Castellina-Pasi (la
“fisarmonica” di Lupin III) e ai Superobots (Blu Noah - Mare Spaziale) deve
starci lei, con la eco alto-vibrante di questo suo timbro spettacolare che
sorvola il drago a modularsi sulla frequenza delle musiche sorgenti, che sono le
stesse del Lodoss War giapponese ma che sembrano tuttavia vantaggiarsi del
nuovo cantato, quasi le avessero costruite pronunziando il refrain «io sono
prigioniera», tra un kanji e un hiragana.
Il cinestormo fantasy, extraletterario,
pomposo, innesca l’alternazione dei guerrieri e degli universi frastagliati di
Dungeons & Dragons in rapporto a una esigenza di razziatura, all’uso nipponico,
di tutto quel che poteva realizzarsi utile al consolidamento della storia; le
Cronache della Guerra di Lodoss si mostrano quindi sovraccariche di elementi
adottabili alla nutrizione del poema cavalieresco, difronte alle battaglie di
questi eroi di cui un giorno si sarebbero raccontate le imprese e tramite ancora
la retorica del cliché, dove la “compagnia”, per quanto estranea a ordinarie
tematiche di anelli da gettare nella gola del Monte Fato nonché orfana
dell’ambigua personalità di un Boromir o un Gollum saprà riscuotere il credito
del filo narrante, che resiste per tutti i tredici capitoli di furore a colpi di
spada, e di amori di ventura e incantesimi da sortire al fine di traversare la
foresta, pria di finire tra le fauci del drago e fornire adito a una memorabile
sequenza di accerchiamento da orbi, tutti lì sprezzanti del pericolo a buttare i
fendenti in mezzo al fuoco che divampa, e alle mandibole che serrano, infilzate
dall’acciaio del ragazzo e martoriate dall’ascia del nano; graziata da uno storyline
fisiologicamente estendibile, la saga diretta da Akinori Nagaoka – già regista
per Tokimeki Tunaito (Ransie la strega) e il discreto lungometraggio “Anne no
nikki” – avrebbe conservato una sua riconoscibilità, tra le frasche del ruolismo
di ampio respiro, incoraggiando l’avvio trasversale di romanzi brevi,
videogiochi e manga.
Si vede che vengono osservati parametri
qualitativi surclassanti le usuali frontiere di tollerabilità. Non c’entrano gli
sfondi, perlopiù statici. Pertinenti al discorso ritornano invece le linee di
espressione tracciate per il singolo volto, ripetute con ossessiva perizia sul
tratto – etereo, sfarzoso – di Nobuteru Yûki, paradigma del character
designer vecchia scuola detestato dagli intercalatori,
ché tanto più son bravi, i disegnatori, tanto ancora diventano d’intralcio
rispetto ai necessari tempi di completamento di un ordinario ciclo di
fotogrammi; di notevole aiuto, in merito a Lodoss War, si dimostrano i direttori
dell’animazione (Hiroyuki Okiura su tutti: alla fine degli anni ’90 avrebbe realizzato,
assieme a Oshii, il mirabile
Jin-Roh: Uomini e lupi), quanto mai abili a decifrare il
codice stilistico del caratterizzatore e a renderlo scrivibile on board
più o meno fluidamente; rimarchevole, altresì, il lavoro di Mitsuo Hagita:
deciso a deliberare un mosaico di sketch sonori che esaurissero in due minuti,
assumendosi qualche decimo di secondo di margine il musicista impugna il liuto
se non pure il violino, recandosi all’apertura del tonante Corno francese come
sprono alla guerra, a somministrarle un’acustica che risultasse non
meno epica della Battaglia per la Terra di Mezzo. Si deve dire che i primi sei
episodi sono quelli dove si alternano i momenti più significativi. C’è
quest’animazione dell’elfo femmina che si vede all’inizio che promulga beltà. Ma
però poi succede di mettere sul piedistallo anche i sette restanti, una volta
vista la serie TV del ’98, cui manca l’arte di Nobuteru Yûki, oltreché il
vigore della sceneggiatura originale.