Sulla
isometria avanzata, e il principio della fotocinesi applicato all’animazione di
Yoshiaki Kawajiri si deve inoltre dire che sono componenti che si liberano del
fondamento scritto, e che per tanto si crea, in questo ultradinamico cinema di
istantanee Polaroid ad alta compensazione una trasfluenza di forme che scorrono
dal basso verso l’alto, e che infine ribaltano dentro a unità di
grandezza ricreanti corpi estrogeni, per un fatto di ricerca
di simmetria quanto di sorgenti visuali maggioranti di sette gradi la
fotosensibilità degli occhi, per cui si debbono indossare specifiche lenti oscurate
anti emissioni blu;
dietro a un tal disegno ipertonico vi è recesso un flusso di luce
concentrato fisso, e l’azione cerca di rallentare, e dopo di che aggrava, ne La
città delle bestie incantatrici, tal che in breve si osserveranno le animazioni
animarsi liquide e lo sfondo rosso diventare elettrico, che nemmeno a dirlo è il
livello di
contrasto, madido di colore, a ragionare come linea di manifesto e luogo di
fermamento dell’anime, rispetto a ipervalutati americanismi da
diporto. Perlopiù diretti da Wes Craven.
È sicuramente vero che Hideyuki Kikuchi aveva
ispirati gli eventi qui descritti – e da Kawajiri riscritti in forma anonima: nei credits
del soggetto ci si era inventati uno pseudonimo per ignoti motivi – e con ciò,
La città delle bestie vorrebbe acquisire un suo codice esclusivo, contro il
lineare svolgimento del romanzo, allorché pone il “lato oscuro” a medesima
distanza dall’umana barbarie, mediante pure queste freudiane folgorature di
vulve dentate e neoformazioni della libido, ossessioni velenose, viscide; la
violenza, l’esoterismo, l’erotismo massimo, le mutilazioni divengono ecosistemi
di proiezione/decomposizione a modo del Carpenter primigenio de “La cosa”, e si
avvisa scoptofilia durante l’atto morboso reiterato, avvicinato né manco se di
focus agli estensori tentacolari che penetrano, a fronte di un
improvviso inquinamento chimico delle cose e delle fibre, che deve agire in
quanto affilatissimo, brutale passaggio di consegne tra spazio immobile e
materia spostabile, ché si cambia da zero a centocinquanta
miglia all’ora in meno di un secondo, e la retina si accende e ti conduce, allora,
nell’anno 1987, il cinema
di Kawajiri, alla predeterminazione del frame, sicché le scene sprovviste di moto a luogo devono
omaggiare
Dezaki e questa arte che ancorché statica sembra che si muove.
Sebbene il rapporto d’aspetto di 1.33:1 riconduca
all’iniziale visore catodico, da cui la distribuzione del film in VHS e
Laserdisc – in quest’ultimo supporto unicamente in Giappone e
Germania, da quel che è dato di sapere – per il consumo domestico hi-tech, Kawajiri
intende appropriarsi del formato perlopiù spinto da un bisogno icastico che da limitazioni
tecniche, tantoché anni più tardi, al momento di girare
Ninja Scroll per il
cinema, fu egli stesso a suggerirne l’uso malgrado l’insistenza di
Madhouse, che avrebbe preferito riversare in 16:9. Con Yōjū toshi il regista si
era per cui introdotto in questo modello filmico di voragine spaziale che
richiedeva che l’immagine venisse ridimensionata su presupposti di
trasversalismo, e difatti le proporzioni anatomiche, e in ugual forma
l’intagliatura avvenirista degli interni sempre amaranto scuro, viola, rosa
kitch si descrivono a video in funzione del limite di estensione orizzontale
imposto dai televisori Telefunken di fabbricamento 1985. Kawajiri, che non è
Oshii, ubbidisce a un certo tipo di racconto per immagini, e per quindi la
comprensione della storia potrebbe anche non realizzarsi necessaria. Sì, vi è questa
città dove le bestie prolificano, pressoché sempre notturna, prigione al neon da
cui il seme del male germoglia con quest’ombra di controversa speranza e di
unione tra razze che alla fine scalda il cuore dell’astante disattento, e poco
altro in merito allo script. La questione è cosa il regista vuole. Il regista,
con La città delle bestie, vuole mettere il punto sulla sua rivoluzione
immaginifica. Riuscendoci. Ché, tra Dezaki e Takeshi Koike, è il primo
trasfiguratore dell’anime di cosiddetto genere hard boiled.

