LA CITTÀ DELLE BESTIE INCANTATRICI
di @Luca Abiusi

Sulla isometria avanzata, e il principio della fotocinesi applicato all’animazione di Yoshiaki Kawajiri si deve inoltre dire che sono componenti che si liberano del fondamento scritto, e che per tanto si crea, in questo ultradinamico cinema di istantanee Polaroid ad alta compensazione una trasfluenza di forme che scorrono dal basso verso l’alto, e che infine ribaltano dentro a unità di grandezza ricreanti corpi estrogeni, per un fatto di ricerca di simmetria quanto di sorgenti visuali maggioranti di sette gradi la fotosensibilità degli occhi, per cui si debbono indossare specifiche lenti oscurate anti emissioni blu; dietro a un tal disegno ipertonico vi è recesso un flusso di luce concentrato fisso, e l’azione cerca di rallentare, e dopo di che aggrava, ne La città delle bestie incantatrici, tal che in breve si osserveranno le animazioni animarsi liquide e lo sfondo rosso diventare elettrico, che nemmeno a dirlo è il livello di contrasto, madido di colore, a ragionare come linea di manifesto e luogo di fermamento dell’anime, rispetto a ipervalutati americanismi da diporto. Perlopiù diretti da Wes Craven.

È sicuramente vero che Hideyuki Kikuchi aveva ispirati gli eventi qui descritti – e da Kawajiri riscritti in forma anonima: nei credits del soggetto ci si era inventati uno pseudonimo per ignoti motivi – e con ciò, La città delle bestie vorrebbe acquisire un suo codice esclusivo, contro il lineare svolgimento del romanzo, allorché pone il “lato oscuro” a medesima distanza dall’umana barbarie, mediante pure queste freudiane folgorature di vulve dentate e neoformazioni della libido, ossessioni velenose, viscide; la violenza, l’esoterismo, l’erotismo massimo, le mutilazioni divengono ecosistemi di proiezione/decomposizione a modo del Carpenter primigenio de “La cosa”, e si avvisa scoptofilia durante l’atto morboso reiterato, avvicinato né manco se di focus agli estensori tentacolari che penetrano, a fronte di un improvviso inquinamento chimico delle cose e delle fibre, che deve agire in quanto affilatissimo, brutale passaggio di consegne tra spazio immobile e materia spostabile, ché si cambia da zero a centocinquanta miglia all’ora in meno di un secondo, e la retina si accende e ti conduce, allora, nell’anno 1987, il cinema di Kawajiri, alla predeterminazione del frame, sicché le scene sprovviste di moto a luogo devono omaggiare Dezaki e questa arte che ancorché statica sembra che si muove.

Sebbene il rapporto d’aspetto di 1.33:1 riconduca all’iniziale visore catodico, da cui la distribuzione del film in VHS e Laserdisc – in quest’ultimo supporto unicamente in Giappone e Germania, da quel che è dato di sapere – per il consumo domestico hi-tech, Kawajiri intende appropriarsi del formato perlopiù spinto da un bisogno icastico che da limitazioni tecniche, tantoché anni più tardi, al momento di girare Ninja Scroll per il cinema, fu egli stesso a suggerirne l’uso malgrado l’insistenza di Madhouse, che avrebbe preferito riversare in 16:9. Con Yōjū toshi il regista si era per cui introdotto in questo modello filmico di voragine spaziale che richiedeva che l’immagine venisse ridimensionata su presupposti di trasversalismo, e difatti le proporzioni anatomiche, e in ugual forma l’intagliatura avvenirista degli interni sempre amaranto scuro, viola, rosa kitch si descrivono a video in funzione del limite di estensione orizzontale imposto dai televisori Telefunken di fabbricamento 1985. Kawajiri, che non è Oshii, ubbidisce a un certo tipo di racconto per immagini, e per quindi la comprensione della storia potrebbe anche non realizzarsi necessaria. Sì, vi è questa città dove le bestie prolificano, pressoché sempre notturna, prigione al neon da cui il seme del male germoglia con quest’ombra di controversa speranza e di unione tra razze che alla fine scalda il cuore dell’astante disattento, e poco altro in merito allo script. La questione è cosa il regista vuole. Il regista, con La città delle bestie, vuole mettere il punto sulla sua rivoluzione immaginifica. Riuscendoci. Ché, tra Dezaki e Takeshi Koike, è il primo trasfiguratore dell’anime di cosiddetto genere hard boiled.









  Classificazione OAV
  Titolo originale Yōjū Toshi - 妖獣都市 -
  Provenienza Giappone
  Prima immissione 1987 / Home video
  Produttore Video Art / Madhouse
  Regia Yoshiaki Kawajiri
  Fotografia Hitoshi Yamaguchi, Minoru Fujita
  Soggetto Hideyuki Kikuchi, Yoshiaki Kawajiri
  Character design Yoshiaki Kawajiri
  Mechanical design //
  Dir. animazione Yoshiaki Kawajiri
  Compositore Osamu Shoji
  Sito produttore www.madhouse.co.jp
  Formato DVD-Video
  Edizione Italiana [Dynit]
  Anno edizione 2002
  Numero supporti 1
  Lingue JP / IT
  Sottotitoli IT
  Rapporto 1.33:1
  Compatibilità Region 2
  Durata 80 min
  Episodi //
  Reperibilità Buona
  Prezzo 5 - 7 € circa
  OST Sì [Youjuu Toshi OAV Original Soundtrack, 2003, Shoji Corporation / Izu Studio]

 

Nel 1992 la Granata Press del compianto Luigi Bernardi porta l’OAV per la prima volta in Italia come uscita numero due della collana antologica in VHS “Manga Video International”; la videocassetta, apparentemente prodotta in unica stampa, sarebbe finita fuori catalogo nel giro di qualche mese. Sarà Polygram Video, a metà anni ’90, a ristampare per la nuova linea editoriale “Manga Video”, confermando tra l’altro il primo doppiaggio Granata Press. Nel 2002 tuttavia, con l’edizione in DVD della Dynamic Italia rinominata “La città delle bestie incantatrici”, si opta per un nuovo adattamento, e quindi per un diverso cast di doppiatori. La nuova localizzazione risulta generalmente discreta, ma non del tutto all’altezza del doppiaggio udibile su VHS. Nel gennaio del 2019 Toei produce per il Giappone un restauro in Blu-ray HD da negativo originale. Nel settembre del successivo anno, dopo avere acquistato i diritti di quest’ultima release, Discotek Media produce per il Nord America la sua equivalente edizione.