WINGS di @Andrea
Chirichelli
Tristezza.
Sconforto. Sentimenti estranei al mondo dei videogiochi. Il gioco è per
definizione gioia, spensieratezza, evasione, frustrazione a volte ma non è mai
foriero di stati d’animo negativi. Eppure anni fa un gioco, e che gioco, oltre
al divertimento mostrava anche l’altra faccia della medaglia: ti faceva
partecipe dei fatti della vita, che non sempre è rose e fiori, che spesso
tradisce e che, soprattutto, è una. E una sola. Quel gioco si chiamava Wings.
“Le nuove ali della Cinemaware” declamava la copertina di TGM. L’ultimo volo
della casa americana, seppero poi i giocatori del tempo. Wings è stato di fatto
l’ultimo vero gioco della Cinemaware. La casa americana fu sopraffatta dal
dilagare della pirateria e dai debiti dovuti anche ad una scarsa oculatezza
nelle scelte di mercato, che la portarono ad ignorare il mercato PC che stava
lentamente ma inesorabilmente surclassando quello Amiga; con la sua chiusura
cominciò il declino del gioiello Commodore e di un certo modo di fare
videogiochi. Wings era un gioco emozionale. Ed
emozionante.
L’esperienza ludica era ricca e varia. Scenario: prima guerra mondiale.
Tre missioni-tipo:
un combattimento con biplani poligonali (incredibile dictu all’epoca) con visuale in prima
persona, raid con visuale alla Zaxxon e bombardamenti riciclati dal motore di It
Came from the Desert (quando con l’aereo dovevi gassare i formiconi). Dopo una
missione di prova cominciava la tua carriera nell’esercito angloamericano con i tedeschi
come nemici ed il Barone Rosso come nemesi. La storia e il susseguirsi delle missioni
venivano raccontate tramite un diario dalle pagine ingiallite, ricco di aneddotica sugli
eventi che avvenivano alla base, che accompagnava il giocatore per tutto il gioco. O
almeno fino alla sua morte. Wings era difficile e in molte missioni, specie quelle della
prima parte del gioco, in cui le sorti della guerra erano a favore dell’esercito nemico
era più che probabile finire al creatore. Però, a differenza di quasi tutti i giochi
precedenti, il giocatore tendeva ad immedesimarsi nel protagonista: in fondo il pilota
aveva il tuo nome, alle missioni partecipavano tuoi commilitoni di cui avevi letto fatti e
misfatti magari il giorno prima. E che impressione faceva vedere la testa del protagonista
(la tua testa!) reclinata sulla spalla, esanime, mentre il biplano cadeva in picchiata e
il terreno si avvicinava a velocità sempre maggiore, dopo che eri stato colpito alle
spalle da un fokker sfuggito ai tuoi colpi.
Finita la partita ed estratto il dischetto dall’Amiga un po’ di magone lo si provava.
Certo, bastava ricominciare dall’ultimo salvataggio per rinascere, ed in molti altri
giochi lo avevi già fatto ma con Wings non si riusciva a barare. Così un nuovo nome
veniva iscritto nella tabella delle reclute e il tuo alter-ego precedente restava da
stimolo ed incoraggiamento, specie se eri riuscito ad entrare nella speciale classifica
che contava le vittime ottenute da ogni pilota. Tecnicamente superbo, Wings era la
dimostrazione delle eccelse capacità dei programmatori Cinemaware, capaci di sfruttare un
hardware che, ai tempi dell’uscita del gioco cominciava lentamente a mostrare i segni del
tempo che passa. La colonna sonora, più ancora che la peraltro splendida grafica, era
l’anima di Wings: al tempo stesso epica (soprattutto negli stacchi che introducevano la
missione che si andava ad affrontare) e malinconica. In particolare uno dei pezzi, che
riproduceva il suono dell’armonica, ti ghiacciava il sangue nelle vene visto che spesso
era foriero di cattive notizie. I programmatori Cinemaware disseminarono il gioco di
citazioni e chicche che davano alla già corroborante esperienza un valore aggiunto
inarrivabile: una su tutte, l’ultimo combattimento del gioco, una missione uno contro uno
che chiudeva il sipario su un’esperienza memorabile. E i biplani in parata della sequenza
finale erano, più che un premio al giocatore, l’ultimo saluto di un gruppo di eroi che
aveva fatto la storia. Piccola probabilmente, ma per noi indimenticabile.
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