Negli anni
’50 Hollywood sfornò
una lunga serie di film a basso budget che vedeva la Terra attaccata a rotazione da api
assassine, cavallette mutanti, tarantole troppo cresciute e, dulcis in fundo, formiche
atomiche. Proprio prendendo spunto da una di queste pellicole, Cinemaware firmò, nel
1989, uno dei suoi più celebrati best-seller: It Came from the Desert.
L’incipit del gioco causò un aumento spropositato di slegamenti mascellari, a causa del
perfetto connubio grafico/sonoro, sublimato in una presentazione del gioco che definire
storica è quantomeno riduttivo. Ritroveremo, come in ogni produzione Cinemaware, la
fusione di elementi squisitamente strategici a situazioni strettamente arcade e quindi da
vivere in prima persona. Una formula vincente che assecondava i palati di una vastissima
utenza di videogiocatori, che in un tale visus riuscivano ad assecondare le proprie
predisposizioni ludiche senza assuefarsi a un unico stile di gioco.
Graficamente i parossismi visivi del titolo si sprecavano.
Impossibile dimenticare i primi piani, che occupavano tre quarti di schermo, dei
formicoli, ai quali bisognava staccare le antenne per renderli inoffensivi, l’eccellente
qualità delle schermate statiche di raccordo tra un giorno e l’altro (il titolo copriva
un periodo di tempo definito entro il quale scovare il formicaio e eliminare la regina
madre) e le splendide animazioni delle fasi aeroplaniche, durante le quali si scandagliava
il territorio della cittadina in lungo ed in largo, alla ricerca di indizi e spunti per
elaborare una strategia vincente. Nonostante l’assoluto livello cosmetico, It Came rimase
nelle menti dei giocatori soprattutto a causa della sua atmosfera tesa e cupa, anche
grazie a una incisiva colonna sonora. L’attesa, il sospetto, il terrore di non essere al
sicuro nemmeno nelle proprie case rendeva l’opera Cinemaware un saggio antropologico, una
discesa agli inferi, una straordinaria anticipazione di temi che blockbuster recenti come
Biohazard e Silent Hill avrebbero poi decodificato e riproposto in un formato mainstream
accessibile a tutti.
Sul fronte longevità il giudizio è più che positivo. Seppure ancorato alla sua natura
di adventure, che strutturalmente non si presta alla rigiocabilità, il gioco si
presenta piuttosto lungo e con un livello di sfida atto ad accrescere in modo graduale la
difficoltà. Senza trascurare il fatto che, tempo dopo, sarebbe uscito un aggiornamento
che ampliava la storia offrendo al giocatore ulteriori stimoli. Una peculiarità di It
Came from the Desert fu, infatti, l’essere uno dei primi giochi a poter vantare un
mod/data disk/elemento ludico aggiuntivo, incarnato in Antheads, sublime
addendum che la casa americana fornì ad una comunità ludica insaziabile un anno dopo
l’uscita del titolo principale. Antheads, oltre a migliorare e sgrezzare alcuni elementi
imperfetti di It Came, proponeva un eccellente effetto morphing nel momento in cui le
teste dei nostri concittadini si “trasformavano” in teste di formiche. A riprova
del successo del franchise, si deve inoltre ricordare che It Came from the
Desert fu anche il primo e
ahimè unico titolo Cinemaware ad essere ampliato verso una pionieristica
versione in CD-Rom per PC Engine (TurboGrafx 16). Ricordo come fosse oggi
un numero di TGM, con le pagine ancora in bianco e nero, riportante la notizia e alcune
foto di quella storica produzione: al posto degli sprite, attori digitalizzati e una
colonna sonora stereofonica che sfruttava perfettamente il supporto digitale. Cinemaware
allo zenit della sua storia stava imboccando la strada che l’avrebbe poi portata al
fallimento, ma senza le sue ardite sperimentazioni noi oggi, forse, invece di baloccarci
con Psp e fantasticare su chip Cell e engine potentissimi staremmo ancora a contare gli
strati di parallasse dei fondali dei videogiochi.