Le femmine che si vedono all’interno di questo
live action sembra che fanno uof uof, sebbene non in
seguito a loro particolari atti di negligenza. È che Hideaki Anno se le era
reclutate lui così, a maniera di fotoritratto di ragazze-fan cromosomicamente
resistenti al virus della recitazione, come per fare quindi che il suo assetto filmico
conduttore rispetto al replicamento in carne di Cutie Honey – di cui era
invaghito dal ’73 – esaudisse dovechè il cinema tokusatsu ammischia dentro ai
marchingegni del segno animato, che sono tali da originare poi una limited
edition alquanto ideachizzata dell’androide nel corso di questa
iperplastificatura di stampo autistico recidente i nervi responsabili delle
microespressioni del volto, pure ancora stante che il regista di
Neon Genesis Evangelion avrà
durante il film occasione di mettere diversissime volte sotto accusa la cosa della
disparità lavorativa cui le donne nipponiche debbono sottoporsi per consuetudine
sociale, in mezzo a estratti demenziali astratti quanto la Torre di Tokyo
volante, il mutante, il guerriero con la spada rotante.
Si raccomanda presto un secchio di qualcosa di
medio-alto valore calorico da integrarsi al girato, seppure che la
pellicola dichiara di perpetrare carisma anche qualora che sfornita di additivi e
cibarie, e c’è d’insistere a molestarne lo specifico giuochismo di commedia
cabarettistica waki-kyōgen (脇狂言),
intantoché si cerca al bisogno di partecipare attivamente dei suoi ambiti, o
vuole il caso di potere entrare nei suoi abiti, quantoché le innovazioni
stilistiche del live action vengono specialmente svelate
all’imperevole stacco di animazione, lì nella circostanza dove lei si mette a dire
che a volte è una motociclista, altre volte un agente, uno sgherro di Panther
Clow o la copia del professor Utsugi, ma che la sua vera identità è la guerriera
dell’amore... Cutie Honey. Approviamo codesto film. La sua fotografia di estrema
sovraesposizione. I brutti ceffi somministrano gioie. Ci sta una scena in cui
ballano e cantano. E ancorché Hideaki non ha oltretutto mai cercato di tener
nascosto il suo lato istrionico già ancora quando diresse la prima parte de
Le situazioni di Lui & Lei,
voto 7, qui succedono baldorie e fracassi per certi qual versi insospettabili
nel merito in cui questi stessi distanziano dalle ordinarie logiche delle
licenze su commissione, talché attecchiscono nello strato subdurale del montato.
Per cui l’inversione di colore assume che si deve
perforare di forbice per tessuti al contorno dell’eroessa di cartapesta, in uno
spazio traverso cui rinunciare alla consecutività del frame rate per nome
di riverenza delle cinetiche a uso negli anni ’70, nel senso più cosmeticista, e
circa in sede di una cinecamera deviante di settantacinque gradi fuori del
soglio periferico che dislega le filmografie di genere dalle autografie sui
generis, esercizi di trasfiguratura, esasperati spostamenti degli angoli di
messa a fuoco, luci, ombre, ombretti, musei delle cere. Mausolei a istantevoli
teatri di mimetismo sentimentalista presso i quali parlare dell’isolamento che
la diversità comporta, o di un velato (e forse più probabilmente disperato)
bisogno dell’amicizia dell’altro, di oltre a una retrotestualità che arriva
sempre a implicare la enigmatica storia di sé pur derivando verso a un’apparente
forma di videocassettismo cumulativo di serie z; il film dal vero di Cutie Honey
è quasi uno spaccato d’intenzioni personali. Dice una cosa ma ne suggerisce
un’altra, se resti vigile per un minuto e ti succede di guardare con gli
occhiali da sole di “Essi vivono” alla disumanità del luogo giapponese
così ritratto, ai suoi usi e costumi da patriarca, a un ordinamento di classe
risalente alla dinastia dei conquistatori samurai. Ma ci sa che è tutta colpa
dei popcorn indigesti di cui abbiamo usufruito in corso di visione. Fate finta
che non abbiamo detto niente. Guardatevi pure il film e volate in Giappone alla
prima occasione utile che vi si presenterà.