Così Tsururiri disse che la manina di Tsurumaki era in
obbligo di risultare individuabile a fronte di settecentoventotto sbraitanti
altre. Ma foss’anche di aver mancate le precedenti
sue memorabilissime imprese, cose riguardanti
Furikuri o l’animazione di un
Neon Genesis Evangelion che avesse contribuito allo
scorticamento dello
human design, lo spettatore pagante doveva poi sentirsi come in dovere di
verificare i trascorsi di codesta eccentricissima personalità marziana,
scortandone il movimento di camera diretto all’uso della semi-prospettiva e
d’inquadrature sempre più votate all’aggravamento schizoide delle controfigure
parlanti, che usano di regola discorrere di argomenti abbastanza sganciati di
struttura, sì che si dovesse cercarne una nello spazio della
intenzionale grammatica del nonsense, che pure ritiene una sua filosofica
correlazione con Punta al
top! GunBuster in luogo alle sequenze conclusive, dove le intuizioni del
regista vengono fuori tutte insieme, portandoti a retrocedere, e a
rivalutare il significato stesso del Die Buster quanto del linguaggio autistico
del robot “Nono”, che si scoprirà essere perpetuativo, un canale di
comunicazione dormiente progettato per attivarsi dietro mirate sollecitazioni
della sua matrice biomeccanica.
Fondamentalmente, si esige un atto di fede.
I siparietti kawaii, lo zoom reiterato sulle zone polpose delle “topless” e il consumarsi
della idolatria criptolesbo fomentata da Lal’c insediano a risultanza del
legaccio incorruttibile tra spazio e memoria biologica, secondo la causalità della
predeterminazione, situazioni che dovevano ripetersi sulla scorta di un modello
androide che preservasse la direttrice temporale, e, contiguamente a essa, la
sopravvivenza del pianeta terra; in linea con un’ambiziosa visione eternalistica
dell’universo il regista percorre una traccia che è alternativa alla serie OAV
di Hideaki Anno, sollevando Top wo Nerae 2! dalla responsabilità di farle da sequel in senso
stretto a supporto di un asse coincidenziale, parallelo per disseminazione
del tempo narrante. Tsurumaki è uno che osa. Per dire che le buster machine
di questo lontanissimo futuro sono degli Eva. Entità autonome il cui
risveglio deve verificarsi compatibilmente alle reazioni biochimiche del
soggetto ospite, che di questi organismi diverrà gregario e mai per davvero
manovrante, dovendo osservare il ruolo di stabilizzatore della loro attività
neuronica centrale, e fin quando si fosse rimasti in tema non si poteva oltre a
ciò mancare di alludere a
The End of Evangelion intorno a un importante segmento dell’episodio
risolutivo, pure riservando all’opera cinematografica la opportuna deferenza,
datoché il Maestro osservava e che il convenuto ossequio non poteva venire scambiato
per deliberato oltraggio.
Si doveva meglio insistere sulla importanza di
stabilire dei punti fermi, in attinenza a una continuità episodica che talvolta
eccede nell’inesplicativo; sorvolando lo
scritto del prequel emerito, cui è indicato di riportarsi com’è
assennato ricondursi allo spettro dell’inarrivabile, Punta al top 2!
Die Buster pattuisce nutrizione a una soggettiva esigenza di esteriorità, e
tuttavia si nega la scorrevolezza testuale in cambio di un farraginoso e
quand’anche sporadico deragliamento di natura dialettica. Ma ci può stare
oltremodo. Che quasi va a cercarselo, Tsurumaki, il saliscendi volumetrico, che
a ragion veduta deve superare l’empirico e globalizzarsi, formare un’onda
d’urto da farti versare lacrime di un colore arancione brillante che non si è
visto mai neppure al morire del sole di Marte; la gigantezza dell’animato
prolifica esponenziale sulle superfici delle superleghe a stilizzare questa
coabitazione aristocratica con mille e cento chilogrammi di grafiche
renderizzate – materiale tripla A: non fosse per l’accelerazione del frame rate
lo classeremmo bidimensionale all’istante – che parlano di Yasuhiro Imagawa
senza se e senza ma, in quanto diffidiamo di esser stati Noi soltanto a
percepire persistente l’aura di Giant Robo al ravvicinato attracco visivo con
gli umanoidi, coloro che spostano i pianeti e periscono per amor
delle ragazze leggendarie. Le quali, dodicimila anni or sono in rotta verso le
stelle, avranno ancora una casa dove poter tornare.