Si proclamarono figliastri di Osamu Dezaki
persino in Gainax. Nel cui manifesto venivano aprioristicamente scostate le
narrative di riscatto e redenzione del Giappone 1970, poiché sature. Ancorché si devono addurre a Top wo Nerae! GunBuster inestinte azioni di
riscrittura dei settori omologati, all’interno del reso tributo a
Jenny la tennista,
e allo shōjo-spokon in senso più allargato datoché non potevano
per certo sviarsela con un accademico ammiccamento, di seguito alle iperboli
fantascientifiche istigate da
Honneamise e Hiroyuki Yamaga e difatti, Punta al Top! GunBuster, nel 1988,
spinge l’«anime power» – che, in diversi termini, sta per “opera d’animazione
giapponese fornita di sigla cantata j-pop di idol emergente in cui ci
sono i robot, le femmine scarsamente vestite, le femmine scarsamente vestite ma
però cattive, gli uomini maledetti inclusivi di occhiali da sole Ray-Ban e
malattia terminale, le astronavi e i mostri alieni” – allo stadio di
conclamazione dell’èpos,
in ordine a uno scritto che della letteratura telecatodica di genere promanasse i
teoremi inesplorati del balzo spaziotemporale, giammai indotto come deliberato
atto ma al più visto sotto tempra di logorante – e struggevole –
consequuntur scientifica; la prima regia di Hideaki Anno è una lettera
d’intenti sulla quale sottoscrivere il mutamento identitario del disegno
animato.
Si ha opzione di convenire a un ventaglio di
frivolezze per lo più ingannevoli. E si intuisce benissimo dove intende recarsi
il regista, inscenando ignudità e un fattore interlocutorio di sorellanza, in
capo a un’idea di mimetizzazione degli eventi del contiguo futuro, presso il
manifestarsi del “GunBuster” e di un legame destinato a sopravvivere al
firmamento; dall’essere un anime di classico anacronismo – Ace wo Nerae!
a parte, si avvistano riferimenti alle opere di Yoshiyuki Tomino e Leiji
Matsumoto – Punta al top! GunBuster acquista lo spessore della saga
generazionale di fianco al senso di miticità del suo narrato, che sa tuttavia
dimostrarsi colto e puranche insinuare un percorso di sentimentalismo quàntico
nel corso del tempo che accelera intergalattico, allorché il minuto trascorso
sul bordo del wormhole equivale un anno del calendario terrestre, per assumere di
licenza a casa che gli ex compagni di scuola, ormai adulti, si son quasi
dimenticati del festoso giorno in cui si era partiti alla volta spaziale. A
nome dell’ingenuo candore di Noriko Takaya, l’anime
racconta la solitudine del pioniere. Cui non rimane che appellarsi a un’amicizia
che surclassi le variabili gravitazionali, le anomalie atomiche, le invasioni
delle chimere del multiverso; che resista costante al deterrente della
relatività, traversando il mistero cosmico e le distanze della luce.
Opportune argomentazioni d’amore e tragiche
mancanze, a metà dell’anime affrontate con dovuta circospezione, per non
bagnarsi di melassa, inducono l’integrativo tema del senso di colpa che è
richiesto di sopprimere sul nascere, contestualmente al dovere di superamento
della sconfitta, seppure che il cinema di Avildsen lo si fosse già
menzionato al primo episodio, nel quando il “Coach” Otha sprona Noriko a “mettercela tutta” e a fare come fa Rocky. Haruhiko Mikimoto
– quello di Chōjiku yosai
Macross: Ai, Oboete Imasu ka (Blu-ray giapponese del 2016 mandatorio) – esibisce
il suo character design di gran simmetrie verso le zone sensibili allo
sfioramento riguardo un incontrollabile richiamo investigativo, ma più come
qualcosa di formativo a livello di centimetratura delle anatomie degli arti
inferiori, per ricavarne tesi di laurea da presentare alla Scientific
American dietro lettera di raccomandazione di Eiichi Yamamoto, al quale è
impensabile dire di no; la esteriore prodigalità dell’anime
avvolgente
lambisce le cromature delle buster machine di pari agli châssis in
titanio dei caccia-ricognitori, da che nulla doveva mostrarsi fuori posto all’ora
x della uniformazione tra Noriko e Kazumi, e quindi del Super Robot
interstellare che le avrebbe tramutate in poco più che un ricordo, a meno che
la loro impresa non fosse diventata leggenda, uno di quei racconti che si
perpetua tra le epoche ma a cui nessuno crede, sinché non le avessi vedute
concedersi alla stratosfera, dodicimila anni dopo, e dar luogo a un finale
capace di strapparti via il cuore.